Il caso Fiat tiene banco sulle prime pagine dei giornali, grazie anche ai toni da comare isterica di Diego Della Valle. Sarà anche patriottismo il suo, però francamente di gente che si esprime come lui, Zamparini, Preziosi e De Laurentis (imprenditori ma non a caso tutti anche presidenti di squadre di calcio, ambiente che se non sei rissoso e fegatoso inutile frequentare ) siamo un po' stufi. Credo sia stato uno juventino spiritoso che nella rete ha commentato che se aDella Valle gli rodeva ancora così tanto per i soldi dell'aereo di Berbatov, poteva fare una telefonata agli Elkan che sicuramente glielo avrebbero rimborsato...
Battute a parte, il problema della Fiat è serio e non certo per le ragioni strillate dal noto venditore di scarpe.
Avevo pubblicato l'altro giorno il commento di Davide Giacalone, sul capitalismo compassionevole ( per chi vuole, lo trova qui : http://ultimocamerlengo.blogspot.it/2012/09/il-caso-fiat-come-litalia-troppo-grande.html ) , oggi riporto quello di Massimo Mucchetti, editorialista che definirei "Laburista " del Corriere della Sera, che scrive un articolo interessante ancorché non lo condivida appieno.
In particolare, quando rileva come il successo della Crysler sia dovuto ai miliardi di dollari che il governo USA ha tirato fuori per consentire l'indolore - per gli operai - chiusura di una serie di stabilimenti improduttivi, consentendo l'abbattimento dei costi fissi. Gli pare una cosa da poco a Mucchetti ? Aver potuto abbattere i "costi fissi" ? In realtà lo Stato si è sobbarcato un costo sociale per consentire che l'azienda americana avesse un appeal per l'investimento che l'ha salvata. La stessa soluzione poteva essere raggiunta semplicemente consentendo che l'imprenditore facesse la stessa cosa senza assalti sindacali.
Insomma, se una azienda con costi 100 è in perdita, mentre riducendo questi costi a 50 torna produttiva e in utile, sarà il caso che sopravviva nella nuova dimensione o che continui a perdere tenuta in vita solo coi soldi pubblici ?
Sembra una domanda retorica ma NON lo è. Come le vicende dell'Alcoa e del CarbonSulcis dimostrano.
Difendere 100 posti di lavoro dove l'impresa è in perdita e viene mantenuta in piedi solo dalle sovvenzioni di Stato, con un costo 1000, oppure mantenere 50 posti VERI, produttivi, e impiegare che so, le tasse dell'impresa tornata in utile per favorire indennizzi e aiuti al ricollocamento degli altri 50 ?
E ancorché la tasse non fossero sufficienti e volessimo comunque usare il denaro pubblico , sicuramente i costi non sarebbero 1000 ma minori e con prospettive UTILI (l'impresa che torna in attivo, e la possibilità che anche gli altri dipendenti possano apportare produttività in altre aziende che ne hanno bisogno).
Perché non si fa ? Perché in Italia il posto di lavoro viene difeso A PRESCINDERE, perché non c'è alcuna fiducia di trovarne un altro.
Questo è la palude da cui non usciamo.
Poi ovviamente ci sono altri problemi. La crisi recessiva, che in Italia è più forte, così come il problema del finanziamento, dei costi di energia ecc. (tutti elencati dal citato articolo di Giacalone che ricorda perché fare impresa in Italia sia diventata impresa eroica, salvo per gli "amici degli amici"). A questi aggiungiamoci la tendenza Fiat a essere più brava nei rapporti politici, e quindi ad ottenere aiuti dai governi (pare non solo in Italia ma anche in Brasile, Serbia, Polonia e da ultimo in USA ), che a progettare nuovi modelli.
Perché è vero che la crisi dell'auto è europea, però è anche vero che le auto si vendono meno ma si vendono sempre. Quindi "vincono" sul mercato i modelli apprezzati di più. Non quelli Fiat, pare.
Buona Lettura
Il Lingotto e la carta tedesca
Tanto tuonò che
piovve. Incalzato da Diego Della Valle e da Cesare Romiti, l'amministratore
delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha rilasciato un'intervista a la
Repubblica che ha titolato su 5 delle 6 colonne della prima pagina: «La Fiat
resterà in Italia». Lo strillo promette, ma possiamo dirci tranquillizzati? La
risposta è: no. Ecco perché.
L'esternazione del
top manager era stata preparata, il giorno prima, da un lungo elogio
dell'economista Alessandro Penati. Perché, si era chiesto Penati riecheggiando
l'ex direttore dell' Economist , Bill Emmott, negli Usa si osanna Marchionne e
in Italia lo si critica in modo così aspro? Perché questo Paese è conservatore
e consociativo, refrattario all'economia di mercato, è stata la risposta:
identica a quella del giornalista britannico. Musica per la Torino del
Lingotto. Una beffa per la Torino operaia, anzi per l'Italia operaia. Un rebus
per la classe imprenditoriale divisa tra chi crede ancora nelle virtù
taumaturgiche di Marchionne e chi ormai manifesta scetticismo, anche senza
ricorrere ai toni sgarbiani del signor Tod's, che possono sì fissare un
concetto nell'immaginario collettivo ma di sicuro non aiutano a risolvere i
problemi. Certo, né a Penati né a Emmott viene il dubbio che gli osanna
americani dipendano dal fatto che a Detroit si lavora a pieno regime, mentre a
Mirafiori si riesce a farlo solo 3 giorni al mese; che negli Usa l'industria
automobilistica è stata salvata dai miliardi della Casa Bianca, mentre in
Italia il governo - Berlusconi o Monti, in questo caso cambia poco - non può o
forse anche non vuole fare alcunché. E tuttavia, nonostante l'assist, il leader
della Fiat non ha dissipato nessuno dei timori sul ridimensionamento degli
investimenti Fiat in Italia.
Marchionne ha speso
due argomenti, peraltro non nuovi: a) la Fiat non ha progettato altri modelli
per l'Europa e i mercati evoluti perché, se l'avesse fatto, avrebbe perso
miliardi data la crisi epocale della domanda di automobili; b) il buon momento
della Chrysler serve a salvare la Fiat in Italia.
Sul primo argomento
è inutile ripeterci troppo. Gli altri produttori di automobili non hanno
interrotto i cicli di rinnovo dei modelli, la Fiat ha saltato gli ultimi due.
Tutti ciechi, gli altri? Marchionne, con la benedizione del suo azionariato, ha
scelto di concentrare le munizioni sul fronte più promettente in questo
momento: gli Usa. Ma ci andrei piano con i miti globali. Globali sono la
Toyota, la Volkswagen, la Ford, la Gm, la Mercedes, la Bmw e la Renault-Nissan.
Vista in prospettiva, la Fiat non appare molto più globale di com'è stata altre
volte in passato. Ci fu un'epoca in cui la Fiat possedeva la Seat in Spagna
(ceduta a Volkswagen), la Simca in Francia (finita alla Chrysler), la Zastava
in Jugoslavia. La Fiat aveva già la grande unità produttiva polacca. A Belo
Horizonte ha aperto negli anni Settanta: il Brasile l'hanno scoperto gli
arzilli vecchietti. In Unione Sovietica, Agnelli e Valletta erano andati ancor
prima. Non aveva gli Usa, la Fiat. È vero. Ma di questo passo si sta giocando
l'Europa. E l'Europa non è solo un mercato ancora grande, ma anche e
soprattutto è il cuore e la testa dell'automobile. Molto più degli Usa, dove si
fabbricano principalmente dei baracconi. Alla fine, quale sarà il saldo?
Sul secondo
argomento, servono ancor meno parole. Marchionne avverte: «Se la Fiat vuole
essere partner di Chrysler, deve essere affidabile». Ma non ci era stato detto
che era stata la Fiat a comprare la Chrysler? E Steven Rattner, l'obamiano zar
dell'auto, non aveva bocciato l'autosalvataggio della casa di Auburn Hills
perché era indietro di 10 anni? Adesso scopriamo che la legge la dettano
dall'altra parte dell'Atlantico. Non perché siano capaci di fare macchine
migliori, ma perché di là si guadagna, dopo aver perso a rotta di collo. E si
guadagna perché il governo ha pagato con i denari dei contribuenti la chiusura
di decine di stabilimenti e ha dunque tagliato i costi fissi di Detroit.
Esauriti i due argomenti, eccoci ai silenzi. (E DUNQUE, PERCHé NON FARLO ANCHE IN ITALIA ? ndC)
Nel pur lungo
colloquio, il capo del gruppo Chrysler-Fiat non ha affrontato i tre nodi reali
sui quali la Fiat Spa è chiamata a fare i conti. Il primo è la sovraccapacità
produttiva in Europa. La recessione l'ha accentuata, ma c'era anche prima e
rendeva fin da subito poco credibile il raddoppio della produzione previsto da
Fabbrica Italia. In sede Acea, l'associazione europea dei produttori di auto,
Marchionne ha sostenuto l'idea di coordinare le chiusure delle fabbriche di
troppo e di assegnare alle società incentivi pubblici alla bisogna. Com'era
avvenuto per l'acciaio. Ma per i tedeschi solo le case non abbastanza brave
hanno fabbriche in eccesso. Dunque, chiudano loro, e senza aiuti di Stato.
Marchionne ha attaccato i tedeschi. È stato respinto. Che cosa conta di fare,
adesso? Torino ha già lasciato Termini Imerese. La francese Psa dice che,
forse, taglierà 8 mila posti. La Opel, probabilmente, smantellerà qualcosa. Ma
non basta. Anche perché la Fiat va peggio della concorrenza ed è dipendente da
un mercato, quello italiano, che soffre più di tutti. Promettere che la Fiat
resterà in Italia significa poco se non si spiega con quanti stabilimenti, con
quante persone, con quali risorse e per fare che cosa. Sostiene Marchionne: «Mi
impegno, ma non posso farlo da solo. Ci vuole un impegno dell'Italia». La
storia dei suoi investimenti - tutti sussidiati dai Paesi dove li ha fatti:
Usa, Brasile, Serbia - fa sospettare che Marchionne stia per bussare a
quattrini con il governo. Se così non è, restiamo in attesa di capire in che
cosa consista il «contributo dell'Italia».
Il secondo nodo su
cui continua il silenzio è la disponibilità della Volkswagen ad acquistare il
marchio Alfa Romeo, assieme a uno stabilimento italiano che, altrimenti,
verrebbe chiuso. Il Corriere sta dando informazioni in materia. Abbiamo anche
indicato il nome della banca - la Lazard - che ha presentato l'idea sia a
Marchionne sia ad Elkann. Oggi aggiungiamo che esperti tedeschi hanno visitato
tutti e quattro gli stabilimenti in teoria papabili: Mirafiori, Cassino, Melfi
e Pomigliano. Hanno pure stilato un rating . Queste visite fanno pensare che
qualcosa possa accadere. Che magari entri nel pacchetto anche un po' di
tecnologia. Stupisce il disinteresse di Cisl e Uil e dei sindacati minori
davanti alla possibilità che un investimento estero, fatto dalla casa automobilistica
più forte d'Europa, venga a risolvere una parte dei problemi aperti dal declino
della Fiat in Italia e a portare un po' di concorrenza. E stupisce anche il
silenzio dei tanti aedi della concorrenza. Temono di disturbare i manovratori?
In ogni caso, questa è anche materia del governo che parla tanto di attrarre i
capitali esteri e forse farebbe bene a intervenire prima che le situazioni
degenerino come a Termini Imerese o, per altre produzioni, a Portovesme.
Il terzo punto sul
quale Marchionne tace è quello finanziario: del debito e della moneta. Il
debito Fiat è ancora considerato spazzatura, le sue obbligazioni junk bond .
Pesa certamente il rischio Italia, ma ancor più pesa il rischio Fiat-Chrysler
(nonostante i primi profitti americani). Basta confrontare i differenziali tra
i Btp e i Bund e quelli tra le obbligazioni Fiat e le obbligazioni Volkswagen
per accertare come da anni i primi siano inferiori ai secondi. Che cosa ha in
animo di fare la Fiat per risalire la china che la svantaggia nella
competizione con case che già investono di più e in aggiunta si finanziano a
tassi inferiori? Che senso ha benedire Monti e non porgli il problema dei
tedeschi che finanziano le vendite ai clienti a tasso zero o quasi grazie al
fatto che entrambi, noi e loro, stiamo nell'euro, ma loro sopra e noi sotto?
Prima che sia troppo
tardi, e cioè prima che la politica del carciofo adottata da Marchionne abbia
consumato anche l'ultima foglia, è forse il caso di affrontare la questione
Fiat come una grande questione industriale del Paese, nel rispetto dei ruoli di
ciascuno, ma andando tutti - azionisti, management, sindacati, banche e governo
- oltre le chiacchiere vaghe e il duello infantile tra paure e desideri per
cominciare ciascuno, da adulto, a prendersi le proprie responsabilità.
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