martedì 4 settembre 2012

LA PAURA DEL "NEMICO A SINISTRA"

L'avevo letto distrattamente qualche giorno fa l'articolo di Michele Salvati dedicato ai problemi della democrazia in Italia, con particolare riferimento allo storico dualismo della sinistra italiana, da sempre spaccata tra riformisti e radicali (ieri rivoluzionari), e la deriva giustizialista di un campo a suo tempo garantista. Un amico e maestro, Domenico Battista,  lo aveva a sua volta postato sul suo profilo (e credo anche nel gruppo degli avvocati appartenenti alle camere penali) come lettura da non perdere e allora l'ho riletto e ho capito che aveva ragione, e che la riflessione di Salvati meritava di essere segnalata e conservata. Succede di essere poco attenti. Per questo sono preziosi gli amici di cui ti fidi.
Buona Lettura


DEMOCRAZIE
L'equivoco giustizialista che penalizza la sinistra italiana
Ci sarà pure una ragione se due riferimenti puramente spaziali (tra chi siede a destra o a sinistra del presidente dell'assemblea) riassumono l'intera storia del conflitto democratico, dai primi parlamenti ottocenteschi sino ad oggi e in tutte le democrazie. La ragione c'è, è seria e ho cercato di spiegarla in un recente articolo sulla rivista Il Mulino (2012, n. 4), cui rinvio coloro che fossero interessati a conoscerla. Temo, però, siano pochi e che la maggior parte dei nostri concittadini sia convinta che destra e sinistra non vogliano dir nulla oggi, se pure qualcosa hanno voluto dire in passato: la minestrina è di destra e la pastasciutta di sinistra, i reggicalze di destra e i collant di sinistra, cantava Giorgio Gaber una ventina d'anni fa, dando voce al suo disincanto. Un disincanto che non ha fatto che aumentare, sino a raggiungere l'allarmante disprezzo per la politica e i politici che oggi contraddistingue il nostro Paese.
Il disincanto ha ragioni comprensibili e comuni a molti altri Paesi democratici: il crollo di alternative politiche radicali - chi pensa sia oggi possibile e desiderabile l'eliminazione di una economia di mercato? - e il rafforzamento dei vincoli internazionali alle politiche perseguibili da singoli Stati nazionali in un contesto di globalizzazione - la democrazia è ancora un affare puramente nazionale - hanno di fatto avvicinato molto i programmi dei partiti con ambizioni di governo, siano essi di destra o di sinistra. Il disprezzo e la sfiducia - ai livelli impressionanti che le indagini europee rivelano - sono invece una poco invidiabile caratteristica italiana, che ha origini antiche ma si manifesta con violenza nel trauma politico che ha subito il nostro Paese all'inizio degli anni Novanta. Il trauma che ha portato alla distruzione dei due grandi partiti che avevano governato la Repubblica nei trent'anni precedenti, il democristiano e il socialista, all'emersione di due nuovi partiti con forti tratti personalistici e populistici (Lega e Forza Italia), al cambiamento di nome e pratiche politiche di tutti gli altri: chi non ricorda le monetine del Raphael contro Craxi o i cappi agitati dai leghisti in Parlamento durante Mani Pulite? La Seconda Repubblica, i vent'anni che ci separano da quei tragici avvenimenti, avrebbero potuto attenuare questi sentimenti antipolitici se si fosse affermato un sistema politico civile, capace di affrontare i problemi che l'Italia ereditava dal passato, quelli che tuttora ci trasciniamo appresso. Così non è avvenuto e gli italiani si sono divisi in due tifoserie scalmanate, pro o contro Berlusconi: dalla tifoseria al disprezzo dell'avversario, alla delusione cocente, al «sono tutti ladri, corrotti e incapaci» il passo è breve.
Ma veniamo alla sinistra e alla «rissa» che la sta attraversando. Come la destra, la sinistra si è sempre divisa in una componente più radicale e in una più moderata. Quando alternative di sistema erano pensabili, la divisione era tra riformisti e rivoluzionari, una divisione che in Italia si è trascinata più a lungo che altrove a seguito della sciagurata spaccatura tra comunisti e socialisti. Ma anche quando alternative di sistema non sono più pensabili, la divisione tra una componente più dura e antagonistica e una più moderata e governativa è destinata a rimanere, e di fatto rimane in gran parte dei Paesi europei. E questo è sicuramente uno dei motivi della «rissa»: qui è in gioco l'appoggio che la sinistra deve (per alcuni) o non deve (per altri) dare al governo Monti. Ma in Italia ad esso si aggiunge, e forse su di esso prevale, un altro motivo, che deriva dalla storia di antipolitica cui ho prima fatto cenno: il motivo giustizialista, quello che esprime l'avversione diffusa per i politici e i potenti, il desiderio che essi siano puniti per le loro malefatte. Questo è un motivo che poco ha a che fare con la divisione tra destra e sinistra, il cui conflitto riguarda questioni economiche e sociali: non c'è alcuna ragione per cui una persona di destra seria debba essere meno esigente di una persona di sinistra seria sul fatto che le leggi vadano applicate a tutti, ricchi e poveri, umili e potenti. I principi basilari dello Stato di diritto dovrebbero essere comuni a entrambe.
Ma la storia conta. Conta soprattutto Berlusconi. L'aver fatto causa comune con tutti i suoi avversari, l'aver accettato nel campo antiberlusconiano chi era contro per i motivi più diversi, il non aver affrontato seriamente il problema della giustizia, ha creato una miscela difficilmente gestibile da parte di chi, come Bersani, vorrebbe avviare la sinistra verso una piattaforma moderata ed europea. Il Pd è scoperto sul fronte sinistro, in senso proprio, perché la situazione europea e l'agenda Monti non offrono speranze di crescita nel breve periodo e provocano serie sofferenze sociali. E perché non è riuscito a convincere buona parte del suo popolo che tali sofferenze sarebbero maggiori se si seguissero strategie «più di sinistra». È scoperto sul fronte giustizialista perché si schiera con il presidente della Repubblica nel conflitto tra Quirinale e Procura di Palermo. Ed è scoperto sul fronte antipolitico perché non è riuscito a dare, ai critici della politica, un'immagine che lo differenzi nettamente dagli altri partiti, quell'immagine di «diversità» che ancora Berlinguer poteva con qualche ragione sostenere.

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