Non so se lo lessi su "DESTRA e SINISTRA" di Norberto Bobbio, o su un altro trattatello dello stesso autore. Ricordo che mi colpì il ricorso del noto filosofo a questa esemplificazione (che tale ovviamente era e voleva essere) : l'UTOPIA della Sinistra è l'Uguaglianza dei punti di arrivo, quella della Destra è l'Uguaglianza dei punti di partenza.
La trovo illuminante. E' vero che nel tempo la prima ha perso smalto e con la fine del comunismo e dell'ideologia (o interpretazione ) marxista, in molti si sono convertiti. Ma nella Chiesa della sinistra più radicale e ortodossa questa cosa è ancora sentita in questo modo.
I riformisti, i liberal, i liberali di sinistra, hanno invece corretto la rotta e anche loro si sono concentrati sull'eliminazione delle disuguaglianze di base, quelle che non consentono di partire veramente dalla stessa posizione, e poi chi ha più filo , tessa. Io condivido assolutamente questa impostazione, solo che poi le proprie origini uno se le porta dentro, e mentre un liberale di destra avrà sempre presente che la sua è un'UTOPIA, quindi qualcosa a cui tendere senza però avere mai la pretesa irrealistica di realizzarla compiutamente, quelli di sinistra sembrano crederci che si possa veramente, completamente fare.
E quindi finiscono col mettere su un concentrato di leggi, norme, interventi di Stato finalizzati , secondo loro, a eliminare le disuguaglianze, ma di fatto a ingessare la società e a ridurre la libertà individuale delle persone.
Interessante l'articolo sulla pagina Idee e Opinioni del Corsera scritto da Giuseppe Bedeschi che riporto.
Buona Lettura
Merito contro le diseguaglianze Le frontiere del nuovo
riformismo
Oggi si parla spesso, in riferimento allo schieramento
politico di sinistra, di indirizzi e di correnti «riformiste». Il recente libro
di Enrico Morando e di Giorgio Tonini, L’Italia dei democratici (ed. Marsilio),
porta appunto come sottotitolo «idee per un manifesto riformista». Il
riformismo, nella storia della sinistra italiana, non ha mai avuto molta
fortuna; esso è stato sempre minoritario, e fatto oggetto degli attacchi più
violenti, perché accusato di essere rinunciatario, collaborazionista (con le
classi dominanti, con la società borghese) e mirante al solo obiettivo di ottenere
qualche concessione. Ma, se si va al di là delle passioni e delle esasperazioni
polemiche, e ci si attiene obiettivamente ai dati storici, bisogna dire che il
riformismo socialista non ha mai rinnegato l’obiettivo finale della sua lotta:
il socialismo. Per i riformisti (si pensi a Turati) si trattava di realizzare
gradualmente una serie di riforme che, opportunamente concatenate, avrebbero
modificato a poco a poco i rapporti di potere nella società capitalistica, a
favore delle classi subalterne, finché si sarebbe giunti a una società di
«liberi e di uguali», cioè a una società socialista.
Mi sembra però che il nuovo riformismo che si sta delineando
oggi nell’ambito della sinistra sia qualitativamente diverso dal vecchio
riformismo socialista, e che ciò costituisca una grossa novità.
Esso, infatti,
non mette più in discussione la società capitalistica; il superamento di tale
società non costituisce più il suo obiettivo finale. E ciò perché la società
capitalistica viene considerata dai nuovi riformisti come l’unica in grado di
assicurare dinamismo economico e crescita. Certo, tale società produce
inevitabilmente disuguaglianze (a causa della sua stratificazione sociale, a
causa delle vicende del mercato). E quando queste disuguaglianze diventano
eccessive, come in Italia (sostengono Morando e Tonini), esse devono essere
ricondotte a dimensioni accettabili, socialmente giustificabili. Anzi, Morando
e Tonini ritengono che l’economia italiana possa ritornare ad essere dinamica
solo se la disuguaglianza tra chi sta in alto e chi sta in basso nella scala
del reddito e della ricchezza venga drasticamente ridotta.
Queste affermazioni degli autori meritano qualche commento.
Intanto, sarebbe bene porsi una domanda: perché la società capitalistica
(quando non è anchilosata da monopoli, che possono essere di varia natura) è
l’unica società che assicura dinamismo e crescita? Perché, si può rispondere,
in tale società si svolge ogni giorno quel processo creativo alla base del
quale ci sono gli sforzi di innumerevoli imprenditori, in concorrenza fra loro,
per migliorare la qualità dei loro prodotti, per innovare le tecnologie, per
ridurre i costi, al fine di conservare e di ampliare la loro presenza sul
mercato. La concorrenza, naturalmente, è lotta. Ma «solo nella lotta — ha
scritto Luigi Einaudi — solo in un perenne tentare e sperimentare, solo
attraverso vittorie e insuccessi, una società, una nazione prospera».
È questo meccanismo che si è gravemente indebolito e
opacizzato negli ultimi lustri nel nostro Paese, sia coi governi di sinistra
che coi governi di destra. Le aziende e il lavoro sono stati fiaccati da una
tassazione pesantissima. Di qui la debole o inesistente crescita che affligge
l’Italia da almeno quindici anni. Morando e Tonini fanno vari riferimenti ad alcune
delle ragioni di questa mancata crescita. C’è, in primo luogo, la cattiva
performance della produttività del lavoro: il costo del lavoro per unità di
prodotto, nell’ultimo decennio, è cresciuto in Italia del 40%, in Francia del
15%, in Germania dell’8%. Tale andamento del costo del lavoro ha tenuto
pressoché fermi i salari italiani. Un risultato, questo, anche del fatto che
per lunghi anni si è praticata da noi una struttura centralizzata della
contrattazione, imperniata sul contratto nazionale di categoria, che ha
sostanzialmente impedito ai lavoratori più produttivi delle migliori imprese
italiane di portare a casa la loro quota di produttività aziendale.
Ma se si esce dalle aziende e si guarda ad altri settori
fondamentali della nostra società, le cose non vanno meglio. Infatti nella
pubblica amministrazione, nella scuola, nell’Università, nella magistratura,
l’anzianità costituisce il requisito essenziale di progressione di carriera,
mentre il merito e la produttività sono sostanzialmente ignorati. Ma se le cose
stanno cosi, Morando e Tonini vorranno ammettere che il nostro Paese, se
indubbiamente soffre di disuguaglianze sociali molto gravi, che devono essere
ridotte, soffre anche di un eccesso di egualitarismo che, frenando lo sviluppo
economico, ha reso croniche le disuguaglianze, e anzi le ha aggravate. E che
quindi la soluzione dei nostri problemi non può essere trovata in un astratto
richiamo all’eguaglianza, bensì nella rimozione degli ostacoli che frenano il
dinamismo economico, la produttività, il riconoscimento del merito.
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