Grilli, il ministro dell'Economia, dichiara che i provvedimenti contenuti nella nuova legge di Stabilità, un tempo chiamata finanziaria, porteranno vantaggi per il 99% dei contribuenti....Ammappa...e chi se n'era accorto ?
Poi precisa meglio e ci dice che la composizione è articolata, e riguarda il 54% di lavoratori dipendenti, il 34% di pensionati e il 10% di lavoratori autonomi...che mi pare cosa ben diversa.
Comunque l'ottimistico annuncio viene smentito da Bersani che ormai l'agenda Monti e il montismo non vede l'ora di archiviarli, preso com'è dal cementare la dichiarata alleanza elettorale con SEL (il PSI di Nencini conta ? No. quindi si può fare a meno di nominarlo ) e sulla legge di Stabilità è pronto a dare battaglia, e stavolta sul serio. Del resto dalla stessa si smarca in parte anche Casini che ha coniato la geniale boutade per la quale "il montismo non vuol dire mutismo". Insomma, ormai le elezioni sono ad un passo e nessuno è disposto a giocarsi consensi elettorali per far sopravvivere Monti un mese in più.
Il problema semmai potrebbe venire dall'Europa, dai Mercati, finora i migliori alleati del Premier che è andato avanti sul ricatto che "senza di lui, tutto sarebbe stato peggio del brutto che già era". E così, quando lo spread sfondava nonostante Monti quota 500, Bruxelles, Merkel e Obama osannavano il premier e si leggeva sui grandi giornali nazionali che chissà cosa sarebbe stato senza SUper MArio Io penso che la pelle l'abbiamo salvata, per ora, grazia all'ALTRO di MArio, e cioè Draghi, comunque resta che Monti in Europa ha una visibilità e credibilità superiore a qualunque altro leader europeo che non siano Merkel e Hollande (anche più di Cameron), e questo conta, almeno sul breve periodo.
Molte delle leggi di rigore introdotte dall'ultimo governo Berlusconi (estate 2011) e poi da Monti, sono passate sotto il ricatto europeo. E' un fatto. Non che l'Europa volesse PROPRIO quei provvedimenti, anzi la famosa lettera della BCE firmata a suo tempo da Trichet e avallata da Draghi (allora in Bankitalia) indicava tutte altre manovre , però alla fine se il pareggio di bilancio veniva ottenuto attraverso più tasse, a loro va bene lo stesso : peggio per gli italiani.
Per cui la recuperata autonomia del PD dal Premier attuale può andare bene per le elezioni ma difficilmente potrà andare bene per chi ci presta i soldi. Qualcuno deve forse spiegare a Fassina che il debito italiano per la metà è in mano a contribuenti italiani, che lui può immaginare di penalizzare di più, .per l'altra metà sono investitori stranieri, che lui NON può toccare. Poi c'è la BCE, e anche lì, il principale azionista è tedesco cui l'idea di un' Italia non montiana non piace affatto.
Sono problemi reali.
In tanti, nella sinistra PD, sono convinti che bisogna recuperare lo spirito di Keynes per superare la crisi senza penalizzare i ceti deboli. In altre parole, va recuperata la politica di Deficit Spending.
Tutto il contrario di quello che si è sentito dire per oltre un anno e mezzo.
Mah...
Girovagando sulla rete, sono incappato in un articolo postato dall'amico Mauro Gargaglione che propongo perché, a mio avviso, illustra con ammirevole chiarezza le questioni del keynesismo , della politica economica basata sulla Spesa , e la collusione tra politici e cittadini nell'adottare questo tipo di soluzione molto , ma molto, schiacciata sul presente. Io credo che la convinzione di quelli che in BUONA FEDE, sostengono la bontà del Deficit Spending, sia che in fondo i debiti non li pagherà mai nessuno. La ruota girerà in ETERNO. Le generazioni di prestatori e prenditori si succederanno nel tempo, all'infinito. Quindi perché fermare la ruota ?
Hanno ragione ? In questi anni sembrerebbe di no...
Buona Lettura
Si perdono ore,
giorni, mesi ad analizzare la crisi, le sue cause, le sue conseguenze quando
per sapere praticamente tutto basterebbe rileggere James M. Buchanan, il grande
economista della Public Choice (che analizza, tra le altre cose, il
comportamento dei politici nella loro gestione della finanza pubblica in base
alla propria utilità personale di breve termine: la rielezione). Perché
ostinarsi a perdere tempo quando qualcuno ha già pensato tutto per noi e la
storia lo ha ampiamente legittimato? Uno dei suoi capolavori (scritto in
collaborazione con Richard Wagner, l’economista, non il compositore) è del 1977
e si intitola Democracy in deficit. Si tratta di materiale straordinario, ben
al di là della semplice letteratura accademica. Non è un libro come gli altri ma una profetica analisi
storico-economica in cui con un linguaggio diretto, ironico, efficacissimo,
Buchanan smonta l’intera architettura dei keynesiani partendo tra l’altro da un
punto sacrosanto che sempre viene dimenticato: Keynes ha pubblicato la sua
General Theory nel 1936 sull’onda della grande depressione. È morto nel 1946
senza essere stato per nulla in grado di vedere il nuovo mondo che si sarebbe
venuto formando e di cui lui aveva contribuito a gettare le basi come uno dei
protagonisti di Bretton Woods. Avrebbe continuato a perseverare nelle sue idee?
O le avrebbe adattate ad un mondo del tutto diverso?
In "Democracy in deficit" si descrive come politiche
keynesiane di deficit spending dal 1961 al 1976 abbiano portato ad una
terribile stagflazione (alta disoccupazione alta inflazione) negli Stati Uniti.
Le politiche responsabili di quella situazione furono le medesime di quelle
che da più parti vengono evocate oggi contro il rigore imposto dal mostro
germanico: niente pareggio di bilancio, più deficit spending, più emissione di
moneta tutto chiaramente ad maiorem gloriam dei politicanti.
Non bisogna dimenticare che l’orizzonte di Keynes era quello
di una “borghesia illuminata” al potere, di una sorta di governo da Circolo
Bloomsbury. All’interno di questo orizzonte strutturalmente non democratico, le
sue politiche avevano tutt’altra possibilità applicativa. Tuttavia, come scrive
Buchanan, “l’economia non è controllata dai saggi di Harvey Road [residenza di
Keynes, nda] ma da politici in continua competizione per una poltrona”.
Ricorrere continuamente al deficit (bersaglio principale
dell’analisi di Buchanan) crea una sorta di dipendenza, di vizio strutturale a
cui né i politici né i cittadini riescono più a fare a meno e puntualmente, non
volendo alzare troppo le tasse, provvedimento troppo impopolare, si inizia a
stampare moneta (creando la più infida e oscura delle tasse: l’inflazione). E
si crea un circolo vizioso: “Dopo un periodo di money-financed deficits, di
crescita del settore pubblico e di inflazione, qualsiasi sforzo da parte dei
politici o delle autorità monetarie di riportare l’economia nazionale entro un
regime di balanced budget, di stabilità nell’estensione del settore pubblico e
della stabilità dei prezzi, porterà a deludere le aspettative già costituite e
porterà proprio alle conseguenze predette dai modelli keynesiani”. Ecco che le
politiche di keynesiane si trasformano in una self-fullfilling prophecy
causando, attraverso la loro applicazione, le conseguenze che si riprometteva
di evitare. Nel momento in cui quelle politiche vengono sospese, per cercare di
riportare l’economia su binari più bilanciati, si imputano a questi nuovi
provvedimenti di rientro la causa della recessione.
Ed è proprio a questo punto che Buchanan, tornando alla
parte a più intrigante della Public Choice theory, si interroga sulle
conseguenze politiche di questo tipo di operazioni economiche: “Possiamo
davvero aspettarci che l’ordinaria politica democratica sia in grado di
prendere le decisioni difficili richieste per operare il necessario cambiamento
di politica [economica]? Questo sembra l’aspetto più tragico di tutto il
lascito keynesiano. Una democrazia politica, una volta impegnatasi in una
sequenza di money-financed deficits, potrebbe rendersi incapace di modificare
la direzione presa”.
Buchanan ricorda bene la lezione di Schumpeter
sull’inflazione che il grande austriaco vedeva come una delle forze più letali
per scardinare una democrazia liberale a partire dai suoi effetti devastanti
per l’impresa privata: “perenni pressioni inflazionistiche possono giocare una
parte importante nell’eventuale
conquista, da parte della burocrazia, delle imprese private” a cui vengono
attribuiti gli aumenti dei prezzi in realtà causati da una sciagurata politica monetaria.
E bisogna sempre ricordare da dove deriva l’inflazione: dal budget deficit
finanziato con nuova moneta. L’aumento dell’offerta di moneta non è mai
neutrale.
Democracy in deficit analizza con assoluta chiarezza tutti
questi punti che sommariamente ho elencato e si conclude mettendoci di fronte
ad un fatto inequivocabile.
I politici, alla fine dei conti, non sono dei
mostri egoistici che agiscono ingannandoci. Al contrario, essi agiscono
rispondendo alle voci dell’elettorato e le colpe, prima che loro, sono
dell’elettorato: la loro follia, quella dei politici, è la nostra follia,
quella degli elettori. Their folly is our folly.
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