venerdì 22 febbraio 2013

LA PROVOCAZIONE DI RICOLFI : UNA POLITICA LIBERALE, FATTA DALLA SINISTRA.


Io la Stampa non la compro perché gli unici articoli che leggerei sono quelli di Marco Ansaldo, che scrive della Juve, e di LUCA RICOLFI, con il quale avverto la stessa assonanza intellettuale che provo con Davide Giacalone. Quest'ultimo ha un passato repubblicano (come il vituperato Giannino, che oggi a me sta finalmente simpatico umanamente, mentre ieri ne apprezzavo i discorsi e l'eloquio, meno il piglio moraleggiante, che, alla prova dei fatti, era meglio tralasciare...) , e una cultura solidamente liberale.
Ricolfi viene più dall'area Labourista, ma in senso Blairiano, e comunque non socialista illiberale.
In questo periodo elettorale, ha scritto alcuni dei migliori articoli di analisi politica che mi sono capitati sotto gli occhi.
Non è un liberista, ma crede nel merito, nella liberazione delle risorse e delle competenze (quindi meno Stato), nell'abbassamento delle tasse unito al taglio della spesa pubblica.
Un programma di "destra", secondo la vulgata corrente, in realtà LIBERALE, che solo potrebbe favorire la ripartenza del paese.
Quello di Bersani più che altro può andar bene per ridistribuire la povertà...
Da Leggere


Il dilemma dell’asino di Buridano




LUCA RICOLFI
Quasi nessuno crede alle promesse dei politici. Quindi andremo a votare al buio, consapevoli che - chiunque vinca - non farà quello che si è impegnato a fare. Il fatto che sia irrazionale, irragionevole o quantomeno ingenuo credere a quello che i politici ci raccontano in campagna elettorale, non impedisce però di fare delle previsioni sul loro comportamento futuro. L’elettore, infatti, ha almeno un vantaggio sui politici: ormai li conosce. E, conoscendoli, sa che cosa aspettarsi da ciascuno di essi. Può usare il loro passato per indovinare il futuro che ci potranno riservare. E’ questo l’esercizio di traduzione che vorrei proporre oggi, un esercizio personale ovviamente, ma che ognuno può ripetere in proprio prima di mettere la crocetta sul simbolo sbagliato.  

Per capire che cosa ci aspetta davvero, la prima domanda da farsi è la seguente: qual è la stella polare di Bersani, Berlusconi e Monti? (di Grillo non parlo, perché la sua stella polare è chiara: «mandarli a casa tutti»). 
Bene, secondo me la stella polare di Bersani è, come sempre per la sinistra, la spesa pubblica. Si tratta di trovare il modo di farla crescere, allentando il patto di stabilità interna (tradotto: lasciando che i Comuni che hanno soldi li spendano).  

rinegoziando i vincoli europei (tradotto: lasciateci fare un po’ più di deficit), nella speranza che l’economia riparta. La diagnosi è chiara: abbiamo avuto troppo rigore, è giunta l’ora di varare qualche stimolo all’economia. Il che, nella mentalità della cultura di sinistra, significa sempre «trovare» le risorse, piuttosto che liberarle, nell’illusione che il Pil cresca perché lo Stato spende di più, e non perché lascia più soldi nelle tasche dei produttori. Quanto alle tasse, una patrimoniale sui ceti medio-alti non è esclusa (specie se ci fosse necessità di una manovra aggiuntiva), mentre è esclusa una significativa riduzione della pressione fiscale.  

Si potrebbe pensare che la mia sia una lettura maliziosa del programma del Pd, ma in realtà è la conseguenza aritmetica di una cosa che a sinistra è stata ripetuta fino alla noia: le tasse diminuiranno nella misura in cui riusciremo a farle pagare agli evasori. E’ strano che nessuno lo faccia notare, ma diminuire le aliquote prendendo i soldi dagli evasori significa una cosa soltanto: che la pressione fiscale resta costante, e quel che cambia è solo la sua ripartizione fra economia sommersa ed economia emersa. Un fatto senz’altro positivo, ma che si fonda sull’idea (secondo me erronea) che l’Italia possa tornare a crescere con una pressione fiscale elevata come quella attuale. 

Passiamo al centro-destra. Qui le stelle polari sono due. C’è la stella polare personale di Berlusconi, che è salvare sé stesso dai processi e le sue aziende dalle possibili conseguenze di leggi «contra personam» minacciate dalla sinistra, ad esempio in materia di conflitto di interessi e concessioni pubbliche. E poi c’è la stella polare dei governi guidati da Berlusconi, che è sempre stata la riduzione delle tasse, senza però ridurre la spesa, e dunque creando deficit pubblico. Con l’aggravante che oggi i mercati ci punirebbero senza pietà, mettendo a rischio la stabilità finanziaria dell’Italia e quindi i nostri risparmi. Naturalmente so benissimo che esiste anche il «vasto programma» di Brunetta: tagliare in cinque anni 80 miliardi di spesa pubblica e restituirli ai cittadini sotto forma di minori tasse. Ma non lo prendo in considerazione perché la sua attuazione richiederebbe un vero governo di unità nazionale, tipo quello con cui Merkel e Schröder salvarono la Germania dal declino cui fino a pochissimi anni fa sembrava avviata (molti si sono scordati che, fino al 2007, era la Germania «the sick man of Europe», ovvero l’economia europea più in difficoltà).  

Resterebbe Monti, di cui per fortuna abbiamo un ricordo sufficientemente fresco da spegnere ogni illusione. Monti è stato l’unico leader che la possibilità di fare quel che ora promette - un governo che tagli le ali estreme e faccia le riforme - l’ha avuta sul serio. Quando venne chiamato a «salvare l’Italia» avrebbe potuto fare cose impensabili per i suoi predecessori e, temo, anche per i suoi successori. Ha sciupato quasi del tutto quell’opportunità, muovendosi con una prudenza eccessiva, un rimprovero questo che in questi mesi gli è stato ripetutamente rivolto dai suoi stessi allievi bocconiani. Nemmeno sull’abolizione del valore legale del titolo di studio, tipico cavallo di battaglia della cultura liberale, il suo governo ha avuto il coraggio di prendere una posizione, preferendo nascondersi dietro una consultazione pubblica destinata a finire nel nulla. Ora ci racconta che quel che di buono ha fatto è stato nonostante i partiti, e quel che non è riuscito a fare è a causa delle loro resistenze. Può darsi (anzi sicuramente è), ma come può pensare che la forza che i partiti non gli hanno dato ieri, quando erano terrorizzati e intimiditi, gliela possano dare oggi, che sono tornati ringalluzziti e protervi più che mai?  

Che cosa potremmo dunque aspettarci, realisticamente, da un governo Monti, o da un governo molto condizionato da Monti? 

La stella polare di Monti è il rigore, ossia l’equilibrio dei conti pubblici imposto dall’Europa. I comportamenti passati del suo governo fanno pensare che Monti sia convinto che la via maestra per fermare la crescita del rapporto debito-pil sia azzerare il deficit, o meglio azzerare il deficit «corretto per il ciclo», il che in buona sostanza significa chiedere all’Europa di poter sforare un po’. Questa visione e la linea di condotta che ne deriva hanno alcune conseguenze positive e altre negative. La conseguenza positiva più importante è che, con il rigore sui conti pubblici, diventa meno probabile un collasso finanziario immediato, che finirebbe per provocare una forte riduzione della ricchezza delle famiglie. Quel rischio è invece molto forte in caso di ritorno al governo di Berlusconi, e non è assente nel caso Bersani si trovasse a ripetere la triste commedia dell’ultimo governo Prodi, paralizzato - come l’asino di Buridano - dalle «diverse sensibilità» dei suoi ministri (per inciso: un governo Bersani-Monti-Vendola ci regalerebbe l’asino di Buridano perfetto). 

Ma non mancano, purtroppo, anche le conseguenze negative. L’ossessione del deficit fa indubbiamente i conti con l’Europa (o meglio con la visione economica della signora Merkel) ma non fa i conti né con i mercati né con gli interessi di lungo periodo dell’Italia. Non fa i conti con i mercati perché sottovaluta due elementi cruciali. Primo, lo spread dipende più dal deficit nominale che da quello «corretto per il ciclo»: ai creditori dello Stato italiano interessa il deficit pubblico effettivo, non «quello che sarebbe stato se non fossimo in recessione» (è questo, in buona sostanza, il senso della «correzione per il ciclo»). Secondo, lo spread è fortemente influenzato dalle attese di crescita del Pil, come si è visto la primavera scorsa, in pieno «governo dei tecnici», quando le previsioni di crescita dell’Italia sono state drammaticamente riviste al ribasso e lo spread è ricominciato a salire pericolosamente. 

Ma l’ossessione per il deficit non fa i conti, soprattutto, con gli interessi futuri dell’Italia. I quali sono di aumentare stabilmente la torta da ridistribuire, più che accontentarsi di suddividere «in modo più equo» una torta che continua a restringersi di anno in anno. Un obiettivo, quello di far ripartire il Pil, che realisticamente si può raggiungere solo con riforme coraggiose, e tenendo i conti in ordine dal lato della spesa, anziché dal lato delle tasse come Monti e Bersani hanno mostrato finora di preferire. 

Ed eccoci al paradosso finale. A mio parere la politica economica che meglio tutela gli interessi futuri dell’Italia è una versione più realistica, o meno talebana, della rivoluzione liberale annunciata da Renato Brunetta o da Oscar Giannino (la cui lista e le cui idee restano in campo, a dispetto delle dimissioni del fondatore). Ad essi mi sento di fare un solo vero appunto, quello di dimenticare che il nostro Stato sociale, oltre che inefficiente e sprecone, è anche largamente incompleto, visto che mancano asili nido, ammortizzatori sociali universali, politiche per gli anziani e le persone non autosufficienti: ridurre la spesa pubblica si può e si deve, ma non nella misura in cui i liberisti puri pretenderebbero.  

Purtroppo, però, non vi è alcuna possibilità che una seria e realistica rivoluzione liberale venga attuata da un governo di centro-destra, perché quel genere di politica richiederebbe due ingredienti che ad esso mancano del tutto: la credibilità davanti all’Europa e ai mercati (cha ha solo Monti) e la credibilità davanti alle forze sociali (che ha solo Bersani). Sembra un ossimoro, ma quello di cui a mio avviso l’Italia avrebbe oggi bisogno è una politica di destra fatta dalla sinistra. O, per essere più precisi, di una politica liberale, e perciò automaticamente e superficialmente bollata come «di destra», attuata e garantita dall’assai meno screditato personale politico di centro-sinistra. Una politica che ridia un po’ di ossigeno a chi produce ricchezza e al tempo stesso sia capace di incidere profondamente sulla spesa pubblica, non già per smantellare lo Stato sociale bensì per completarlo, perché di un welfare che funziona c’è oggi più bisogno che mai. 

Quel che invece avremo, verosimilmente, sarà un governo che dirà di battersi per «un paese più giusto», ma finirà per restituirci un paese forse anche più giusto, ma sicuramente più povero. Come direbbe Bartleby lo scrivano, «avrei preferenza di no». 


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