Parlo dell'articolo di Alessandro Fugnoli che va un bellissimo excursus storico storico sull'Europa, eternamente divisa e altrettanto tenacemente tentata dall'utopia unitaria.
Dopo l'ampio e suggestivo volo storico, l'autore si concentra sul nostro bello e sfortunato Paese, spiegando le alternative che potremmo percorrere.
Ci vuole pazienza, ma l'articolo la vale !
Fidatevi.
Teologia politica dell’Europa e dell’euro
Dice l’antropologa Ida Magli che l’Europa unita dei
tecnocrati di Bruxelles è una violenza inaudita contro la storia, la cultura e
le tradizioni millenarie dei popoli che la abitano. Vero, ma è altrettanto vero
che la pulsione verso l’unificazione è anch’essa millenaria.
L’impero romano,
la prima forma di Europa unita, si scioglie nella cristianità, che nella sua
forma politica è così tanto europea da espellere fin dal V secolo il
cristianesimo nestoriano della Persia, dell’India e della Cina. La cristianità
europea si costituisce politicamente nel Sacro Romano Impero, che evolve nel
Sacro Romano Impero della Nazione Germanica e nella monarchia asburgica, che
tramonta nel 1918. La parentesi napoleonica è anch’essa paneuropea e si limita
a sostituire l’universalismo giuridico romano e quello cristiano dell’Impero
con l’universalismo secolarizzato giacobino.
Anche il Generalplan nazionalsocialista del 1940 è
geopoliticamente paneuropeo, ma inverte completamente di segno il carattere
universalista del primo e del secondo Reich. Primato dell’Herrenvolk, sterminio
degli ebrei e schiavizzazione degli slavi contraddicono alla radice il modello
dell’unità dei popoli europei sotto l’imperatore cristiano.
Risorta dalle
rovine della guerra, l’Europa adotta nuovamente un progetto di unificazione
basato sull’universalismo delle regole. È europeo chiunque accetti l’Acquis
Communautaire, l’insieme delle leggi europee. Il repubblicanesimo francese e il
patriottismo della costituzione, l’ideologia che Habermas elabora per la
Bundesrepublik, sono il modello dell’ideologia europea.
L’universalismo
europeo, nei suoi venti secoli di storia, non varca mai la soglia geopolitica
continentale. L’Inghilterra normanna prova a installarsi in Francia, ma dopo la
guerra dei cent’anni e la sconfitta se ne va per sempre dall’Europa, le dà le
spalle e si rivolge agli oceani. Vi rimetterà piede solo per togliere di mezzo
Napoleone, Guglielmo II e Hitler e per controllare, aderendo all’Unione
Europea, che i burocrati di Bruxelles non le procurino danni. La Svezia se ne
scende in Germania durante la guerra dei trent’anni ma da quel momento si
ritira in uno splendido isolamento. L’adesione svedese e danese all’Europa è
pragmatica, non ideologica. Metà dentro, metà fuori. E niente euro. La Turchia,
dal canto suo, mette l’universalismo delle regole di Bruxelles di fronte a una
contraddizione insanabile.
Il progetto
europeo trova un limite non solo nella geopolitica, ma nella sua stessa
genealogia. L’Europa, lungo i secoli, non si costituisce solo come fortezza
tendenzialmente unificata per difendere dagli attacchi esterni la sua fede e il
suo diritto, ma anche per difendersi da se stessa. L’Europa, da quando esiste,
ha paura di se stessa, della guerra di tutti contro tutti e dell’anarchia in
cui tende a precipitare quando perde la bussola dell’universalismo.
Nella seconda lettera ai Tessalonicesi, scritta nel 52
d.C., Paolo invita la comunità cristiana ad avere pazienza. La Parousia, il
ritorno del Cristo nel mondo, non è imminente. Prima del ritorno, come indica
il libro dell’Apocalisse, sarà l’Anticristo a conquistare e sedurre i cuori
degli uomini. Se l’Anticristo non ha ancora portato nel mondo il disordine
(mysterium iniquitatis nella versione latina, anomia in quella greca) è perché
qualcosa lo trattiene.
Il trattenitore
(katéchon), in una tradizione teologico-politica bimillenaria che va da
Tertulliano a Carl Schmitt, è l’imperatore romano, carolingio, asburgico, fino
ad arrivare ai giorni nostri, volendo, all’Unione Europea, a Van Rompuy e alla
Merkel. Il soggetto politico paneuropeo, nell’elaborazione di una corrente
potente di giuristi, teologi e filosofi filoimperiali, diventa la difesa ultima
contro l’anomia, la mancanza di regole e il disordine interno connaturato
all’Europa.
Nella teologia
della storia, come si vede, esiste una fortissima tensione irrisolta. È meglio
arginare il disordine il più a lungo possibile, ritardando però in questo modo,
oltre al disordine, anche l’instaurazione dell’ordine finale e la fine della
storia o è invece meglio accelerare il disordine per renderne possibile la
sconfitta finale? Robespierre, Lenin, Trotzkij e gli apocalittici in generale
teorizzano l’accelerazione del disordine nel nome di un nuovo ordine che verrà.
Il resto del pensiero occidentale preferisce arginare il disordine il più a
lungo possibile
La crisi politica italiana ripropone questa tensione. È
meglio contenere il disordine e restare aggrappati all’euro (il nuovo katéchon)
o è preferibile fare saltare tutto, mollare gli ormeggi, navigare da soli per
qualche tempo e poi ricostruire l’Europa su basi nuove e finalmente durature?
Per ragionare bene
è meglio sgombrare il campo dall’europeismo bigotto, quello che giudica
incivile chi si colloca fuori dall’orizzonte tecnocratico di Bruxelles e
considera l’euro un tabù. Diciamo quindi che si può benissimo vivere senza euro
e che Svezia e Danimarca, che se ne stanno fuori (la corona danese è agganciata
all’euro, ma può sganciarsi quando vuole), sono anzi indicate da qualche anno
come esempi eccellenti di conservazione di uno stato sociale snellito (e in via
di privatizzazione), di crescita economica (niente decrescita felice) e di
tassazione in costante diminuzione.
Spingiamoci ancora più in là e sgombriamo il campo anche
dal tabù della svalutazione. Non è vero che sia sempre una rovina, anzi. Se ben
gestita può ridare energia e slancio. Tutto il mondo (tranne i concorrenti
coreani e tedeschi) si sta complimentando con il Giappone per il rapido
deprezzamento dello yen. Perché dovrebbe essere diverso per Italia e Spagna?
Nella vita, d’altra parte, non si può avere tutto. Non si
può mantenere a lungo un sistema rigido al suo interno e un cambio rigido
sull’esterno. Troppo bello. Si devono quindi fare delle scelte. Si può
mantenere rigida la struttura interna e scaricare le tensioni su un cambio flessibile
(modello argentino). Si può mantenere fisso il cambio e rendere flessibile la
struttura interna (modello irlandese ed estone). Si può rendere più flessibile
la struttura interna e allo stesso tempo svalutare, come fu fatto in Svezia
dopo la crisi bancaria dagli anni Novanta. In quel caso, grazie all’accresciuta
flessibilità interna, la svalutazione fu temporanea e fu seguita più tardi, dal
2009 a
oggi, da una costante rivalutazione.
Se invece si vuole
tenere rigido tutto, mercato del lavoro e cambio, le tensioni si scaricano
sulle imprese, che piano piano fanno ciao con la mano e se ne vanno all’estero.
È la deindustrializzazione, il modello italiano.
È a questo punto
che dobbiamo guardarci negli occhi e fare qualche discussione da adulti. Se
usciamo dall’euro saremo capaci di fare come la Svezia e di accompagnare la
svalutazione con una flessibilizzazione della nostra struttura o non seguiremo
piuttosto la via argentina, quella di mantenerci eternamente rigidi ricorrendo
periodicamente alla svalutazione? La via argentina porta a un rimpicciolimento
costante dell’economia in rapporto agli altri paesi. Questo ridimensionamento,
nel caso argentino, è rallentato dalla scoperta continua di risorse naturali
abbondanti. Noi, queste risorse, non le abbiamo. Quanto alla nostalgia degli
anni pre-euro, non dimentichiamo che tranquillità e benessere ce
li compravamo, oltre che svalutando, con un debito pubblico crescente.
Messe contro il muro, le singole classi dirigenti nazionali
del nostro continente continuano dunque a scegliere l’Europa e l’euro non per
idealismo, ma perché hanno paura di se stesse. Detto questo, l’euro è costruito
così male e l’austerità disegnata dalla Germania è così controproducente che lo
spazio per migliorare il progetto complessivo è davvero ampio.
Qualcosa sta già cambiando e non è poco. Tutti gli
obiettivi di disavanzo pubblico sono rinviati di un anno. Ha cominciato la
Spagna, ha proseguito il Portogallo e ora tocca a Francia e Italia. Tutta la
politica fiscale europea sta passando da fortemente restrittiva a neutrale e
perfino espansiva. A questo sta corrispondendo un modesto irrigidimento della politica
monetaria, ma l’effetto combinato monetario e fiscale è di fatto espansivo. Non
si può dirlo forte, ma l’austerità è rinviata e forse è finita.
Guadagnare un anno non è una brutta cosa, ma per
massimizzare e prolungare nel tempo gli effetti di questa boccata d’ossigeno
bisognerà che la Germania sostituisca obiettivi qualitativi ai target numerici
che ha fin qui imposto ai suoi partner. È meglio una riforma strutturale di un
aumento di tasse, è meglio un taglio di spese accompagnato da una riduzione di
tasse piuttosto che un disavanzo tagliato con stangate fiscali.
La crisi italiana,
per il momento, ha comunque la fortuna quasi sfacciata di cadere in un momento
di mercato assolutamente magico. Le imprese americane producono e assumono per
ricostituire scorte. I consumi vanno piano, ma la discesa appena iniziata del
prezzo della benzina li farà risalire. Sia come sia, una crescita debole
conferma la Fed nella sua volontà di perseguire una politica monetaria
aggressivamente espansiva a perdita d’occhio. La politica fiscale leggermente
restrittiva, grazie anche ai tagli automatici di bilancio che stanno per
scattare, non cambia la natura complessivamente pro-crescita della politica
economica americana.
Il Giappone si è ormai avviato verso una strada di
reflazione a tappe forzate. In Cina la nuova leadership si sta mostrando
prudente, ma è probabile che nei prossimi mesi accentui gradualmente il suo
profilo pro-crescita. La Germania ha ripreso a camminare (piano) e il resto
d’Europa va un po’ meno peggio del previsto. Le borse si trovano poco al di
sotto dei massimi storici del 2008 e si sa che in questi casi la voglia di fare
segnare un nuovo record è praticamente irresistibile.
Nel breve tutti i
semafori sono verdi e i vigili delle banche centrali sorridono e fanno segno di
accelerare. La crisi italiana è un motivo in più per allestire un cordone
sanitario fatto di buonumore e propensione al rischio
Nessun commento:
Posta un commento