Davide Giacalone non è un ottimista, ne un difensore del deficit spending. Quando critica l'eccesso di austerità non lo fa da posizioni neo Keynesiane. E più un aristotelico : in medias stat virtus. Ed è molto pragmatico e realistico.
Ha sempre sostenuto che lo spread non fosse un prodotto nostro ma della speculazione finanziaria che si era accorta di poter far soldi sulla debolezza del sistema monetario europeo, con debiti pubblici grandi privati dell'arma difensiva del monetarismo nazionale. A quegli attacchi, cui si rispose in modo del tutto inadeguato, si aggiunse la preoccupazione dei mercati. Qualsiasi politica di austerity non ha mai inciso significativamente sul livello dello spread. Giacalone lo ha sempre evidenziato, denunciando la speculazione politica sottesa a quella propaganda. Non per questo il bravo politologo ha lesinato critiche ai governi che si sono succeduti per i disastri commessi. Però Giacalone ha fiducia nella potenzialità del nostro Paese.
E lo dice. Non stiamo bene, anzi. Ma non siamo condannati. Facendo cose, possiamo uscirne.
Un messaggio positivo, che spiega.
Buona Lettura
Tempo spredato
Non solo in autunno l’Italia non sarà in bancarotta, come dice un irresponsabile Giuseppe Grillo, ma la condizione in cui si troverà a lavorare il nuovo governo non sarà difficile come quella che abbiamo alle spalle. Il lungo rigore dei conti pubblici, dal 2011 in avanzo primario, e il migliore risultato europeo in termini di deficit, consentono alla Commissione europea di chiudere la procedura d’infrazione, aperta contro l’Italia. L’avvicinarsi del tempo delle elezioni tedesche, proprio nel prossimo autunno, accorcia i tempi oltre ai quali sarà possibile tornare a ragionare seriamente d’Europa, senza la miseria degli egoismi dialettali. I nostri problemi restano, ma l’orizzonte è meno scuro delle giornate che abbiamo attraversato. Sempre che un governo nasca e sia solido, con una maggioranza che non abbia la fregola delle urne e non dipenda da chi fomenta la piazza per espugnare il palazzo.
Lo spread, il differenziale fra i tassi d’interesse nostri e tedeschi per mantenere il debito pubblico, è molto sceso e continua a scendere. Qualcuno, ieri, ha parlato di “effetto Giorgio”, riferendosi alla rielezione di Napolitano. Una totale sciocchezza, visto che quell’indice è sceso durante tutto il corso della tragicommedia quirinalizia. Ieri, ad esempio, in piena incertezza sull’esito della crisi, gli spread sono scesi notevolmente, in tutta l’area dell’euro, ad eccezione del Portogallo (-6 da noi, -8 in Spagna, -7 in Irlanda, -4 in Francia e così via, fino al -13 della Finlandia). E’ ardito sostenere che ciò avviene per ragioni nazionali.
Il dio-spread se ne sta buono per ragioni che non riguardano la nostra politica, ma neanche i numeri della nostra economia. E’ il caso di ricordare che fino alla crisi del debito greco, nei primi mesi del 2010, lo spread se ne stava sotto i 100 punti base (con una parentesi di poco superiore, al comparire dei problemi sul mercato statunitense, fra le seconda metà 2008 e la prima 2009, comunque sotto i 200). Quando andò in crisi il governo Prodi (gennaio 2008), o quando nacque quello Berlusconi (maggio 2008), ebbe solo un trascurabile fremito. Il nostro debito pubblico era, allora, più patologico di quanto non lo sia stato successivamente, perché in tempi a noi più vicini è assai cresciuto quello degli altri. Lo spread cominciò la sua corsa nell’aprile del 2010 e divenne travolgente nella seconda metà del 2011, quando toccò i 552 punti base. Ma si trovava a 537 anche nel luglio del 2012, con il governo Monti da mesi insediato. Sono le decisioni della Bce, sugli strumenti anti-spread, che gli spezzano le gambe, non altro. Aggiungo solo che questi andamenti non riguardano solo l’Italia, ma l’insieme dei paesi europei presi di mira dalla speculazione, quelli, quindi, dove i mercati mettevano alla prova la tenuta dell’euro.
Questa storia, da noi tante volte ricostruita a vanvera, con ottusa faziosità, ha fatto dire a operatori e osservatori che il problema è l’euro e la soluzione non può che essere europea. Dalla federalizzazione del debito alla sterilizzazione della speculazione. Ne abbiamo scritto tante volte, quando gli altri di dilettavano a usare quell’indice come arma contundente. Pericolo cessato? Neanche per idea, perché la Bce non può surrogare la debolezza istituzionale e i rimedi approntati non sono poi così solidi. Si deve ancora lavorare.
Posto ciò, però, l’Italia ha fondamentali migliori di altri e una forza patrimoniale superiore a quella di altri. Abbiamo una recessione più lunga e pesante di quella degli altri a noi paragonabili, con conseguente crollo della domanda e dilagare della sfiducia. Abbiamo un drammatico ritardo nella ripresa, indotto anche dal rigore finanziario cui ci siamo sottoposti. Chi governerà nei prossimi mesi, quindi, potrà trarre vantaggio dall’allentamento di quel rigore, finalmente reso possibile. Il che non significa affatto che si potrà tornare alla spesa spensierata, ma che si potranno accompagnare le riforme strutturali con l’immissione di un po’ d’ossigeno. Perché è quella la nostra vera e grande colpa: al debito pubblico pregresso e crescente (anche non per nostra responsabilità, ma per la dinamica dei tassi d’interesse) abbiamo sommato anni d’inerzia e mancate riforme. Colpa che, tanto per evitare inutili fiammate di tifoseria, coinvolge la destra, la sinistra e il governo Monti. Accompagnando le aperture del mercato, la fine (almeno la riduzione drastica) delle rendite, e i tagli alla spesa inutile (quindi non lineari, ma strutturali) con maggiore liquidità e minore pressione fiscale possiamo propiziare una risorgenza economica nella quale molti hanno smesso di sperare.
Oggi si può. Sprecare questa finestra, o non aprirla per mancanza di peso specifico nel mercato politico europeo, non sarebbe uno spreco, ma un delitto.
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