martedì 7 maggio 2013

E SE PRENDESSIMO ESEMPIO DA COSSIGA E ANDREOTTI PER RISOLVERE IL PROBLEMA CAVALIERE ?


Nelle tante pagine dedicate ad Andreotti - sorte che non toccherà a nessuno dei suoi nemici di ieri e di oggi - cogli spunti un po' ovunque . Ho così letto le cose scritte da  Sergio Romano, Massimo Franco ( scrisse un libro su  Andreotti ),  Antonio Stella, Giampaolo Pansa, Aldo Cazzullo, Eugenio Scalfari, Filippo Facci e Davide Giacalone.
Ricordi e aneddoti si sprecano, e del resto l'uomo si prestava. I denigratori si concentrano sulla moltitudine di accuse, di complotti e di crimini, che lo hanno sempre accompagnato (e infatti fu facile per l'uomo commentare : "credo che solo delle guerre puniche non mi abbiano attributo la colpa" ).
Nel minuto di commemorazione tenutosi anche al Pirellone, sede del governo lombardo, Umberto Ambrosoli ha ritenuto di uscire. Legittimo e comprensibile : è il figlio di Giorgio, ucciso si pensa su ordine di Sindona, e per il quale Andreotti ebbe una delle poche uscite macabre e assolutamente condannabili : "se l'era cercata".
Anche io, fossi stato il figlio, non avrei perdonato, ma probabilmente avrei  proprio evitato di recarmi alla seduta, ben sapendo che ci sarebbe stata questo omaggio.  Si tratta di personalità, caratteri.
Mario Calabresi, direttore della Stampa e figlio di Luigi , assassinato nel 1972 dopo una campagna d'odio assoluto da parte della sinistra extra parlamentare (appoggiata dall'intellighenzia del tempo, pure di quella parte politica) , non ebbe problemi a lavorare nello stesso giornale, Repubblica, che aveva preso come collaboratore Adriano Sofri, per la giustizia italiana (non per me, io credo all'innocenza giudiziaria di Sofri, e apprezzo che lui, negando la responsabilità penale di quel delitto, se ne assunse, nel tempo, quella MORALE) colpevole di quella morte (insieme a Bompressi ,  Pietrostefani e Marino, il pentito ed esecutore materiale). Ripeto, ognuno è fatto a modo suo.
Altri nemici e lieti della scomparsa - a 94 anni....se gliel'hanno tirata in vita non hanno avuto grande successo... - mettono l'accento sulla famosa sentenza della Corte d'Appello di Palermo dove, nella parte motiva, si ritiene che le accuse ad Andreotti di contiguità a personaggi legati alla Mafia fossero fondate ma riferite ad un periodo ormai prescritto. Quel passaggio serve loro per trasformare una sentenza di assoluzione in una di condanna.
Ora, una sentenza o assolve o condanna. Dichiara l'imputato o colpevole o non colpevole. Non si può essere una terza cosa. Tanto meno esiste la "colpevolezza per prescrizione". Questo tecnicamente. Poi, se passiamo alla tifoseria, Caselli e i suoi aficianados diranno per tutta la vita che "prescritto" significa colpevole, cercando così di distogliere l'attenzione dal fatto che per tutti gli altri capi di imputazione, pure portati avanti con pervicace ostinazione e protervia dal procuratore generale, e per i quali NON c'era la spada di Damocle della prescrizione, le tesi accusatorie furono bocciate, con conferma in Cassazione. Per gli innocentisti, anche in caso di condanna Andreotti sarebbe rimasto innocente, vittima di una "persecuzione giudiziaria". In Italia è così, dipende dalla sciarpa al collo.
Ciò posto, ho scelto, tra i tanti articoli letti, quello di Davide Giacalone, anche perché contiene un non esplicito, e peraltro molto chiaro, suggerimento di stretta attualità.
Probabilmente sarebbe una soluzione a tanti nostri problemi, ma non riesco nemmeno ad immaginare gli strilli degli anti Cavaliere in servizio permanente effettivo fino a dove arriverebbero.
Eppure Napolitano ha spalle larghe e temperamento adatto per fregarsene.
Chissà.


Solco gobbo




Sospettato d’ogni male, accusato e processato per mafia e quale mandante di un omicidio, Giulio Andreotti ha vissuto l’ultima stagione della sua vita da celebrato protagonista della storia Repubblicana. Direi di più: da interprete politico propenso più alle cuciture che agli strappi, da figura capace di unire la memoria assai più di quanto non gli capitò di unire il presente dei lunghi anni in cui governò. Ciò si deve alle sue capacità, non c’è dubbio, ma anche alla decisione di un altro grande democristiano: Francesco Cossiga. Chissà che non ci sia una lezione, in quel che fecero. Un’indicazione per il presente.
Andreotti era l’uomo della destra democristiana, al tempo stesso filovaticana, filoaraba e filoamericana. I più scontenti furono gli americani. Fu anche l’uomo della solidarietà nazionale, così godendo di un occhio di favore da parte della stampa vicina alla sinistra. Riuscì ad essere apprezzato, a sinistra, più di Aldo Moro, che pure di quella stagione fu l’architetto, oltre che la vittima. Lui ne fu il mastro, oltre che il vincitore. Questo non gli risparmiò la lunga stagione delle accuse giudiziarie.
Il processo per mafia fu costruito nelle aule parlamentari, a cura della commissione antimafia, allora dominata da Luciano Violante. Poi traslocò nelle aule giudiziarie, a cura di un altro uomo che di Violante era stato sodale, Giancarlo Caselli. Alla fine Andreotti fu assolto e si logorò il sodalizio fra Violante e Caselli. Fatto è, comunque, che per anni si è andati avanti con l’accusa d’essersi asservito alla mafia e di avere baciato Totò Riina. La sentenza gli diede ragione, ma con una coda velenosa: motivando l’assoluzione il tribunale sostenne che le prove, semmai, forse, ci sarebbero state per un periodo di tempo oramai coperto dalla prescrizione, mentre per quello ancora penalmente attivo non c’erano, sicché l’imputato doveva essere assolto. In questo modo gli accusatori potevano continuare a dire di avere avuto ragione, e l’imputato di essere riuscito a dar loro torto.
E’ la giustizia all’italiana, dove le motivazioni, troppo spesso, servono a smentire anziché a giustificare la sentenza. Ma Andreotti non ebbe dubbi: poche storie, era lui il vincitore, e in quanto ai sospetti poteva tornare utile la solita ironia affilata: io baciato Riina? io che manco bacio mia moglie?
Per far ammazzare Mino Pecorella si sostenne, sulla base delle parole di Tommaso Buscetta (dette in epoca successiva alla morte di Giovanni Falcone, quando non c’era più il magistrato con cui, forse, non si sarebbe azzardato), che fece ricorso alla mafia, nella persona di Tano Badalamenti. Quest’ultimo si sarebbe rivolto alla banda della Magliana. Badalamenti smentì ed era pronto a venire, per testimoniare. Sarebbe stata la prima volta. Ma non avvenne, perché un carabiniere, Antonino Lombardo, comandante della caserma di Terrasini, sarebbe dovuto partire per andarlo a prendere, ma Leoluca Orlando Cascio lo accusò d’essere amico dei mafiosi, come fece anche con Falcone. Lui, il carabiniere, aveva già ricevuto delle minacce. Si suicidò. Una storia che ancora aspetta d’essere seriamente raccontata.
Fatto è che la tesi di Badalamenti sembrava non fare una grinza: io non sono il capo della mafia e la mafia non esiste, ma semmai esistesse e io ne fossi il capo, ove mai il presidente Andreotti mi avesse chiesto il favore di andare ad ammazzare uno ci sarei andato personalmente, senza delegare quattro delinquenti drogati. Cruda, ma non priva di fascino. L’imputato fu assolto anche quella volta.
Rimaneva un problema, non risolto dalle sentenze: può un Paese essere stato governato per sessanta anni, e per sette volte guidato, da uno che si poteva continuare a sospettare fosse mafioso e assassino? La cosa era stata risolta prima, da una scelta preveggente del presidente della Repubblica, Cossiga, che lo aveva nominato senatore a vita. Cossiga era uomo che sapeva e vedeva, né si può sostenere che di Andreotti fosse troppo amico. Semmai il contrario. Ma l’antica prudenza e la vocazione democristiana a mettere la gommapiuma su ogni spigolo, gli consigliò una scelta che al nominato sottrasse, d’un colpo, il potere elettorale e l’ascendente correntizio. Quella scelta consentì ad Andreotti di affrontare i processi senza tentare di sottrarvisi e depotenziò i processi stessi delle loro inevitabili conseguenze politiche.
Chi qui scrive non frequentò mai quella scuola democristiana, che, anzi, detestò. Eppure non è possibile, oggi, ignorare la lezione che viene da quel passaggio. La stessa morte del protagonista, proprio nei giorni di vigilia di un paio di sentenze, sembra essere un significativo memo. L’insegnamento, del resto, è di pura marca machiavellica: se non credi di potere annientare l’avversario, evita di insolentirlo e prova a circuirlo. Andreotti esagerò, ma, assieme a tanti altri, anche suoi avversari, ci riconsegnò un’Italia migliore di quella che avevano raccolto.





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