Sul difficile tema del carcere femminile e la presenza dei figli di detenute consentito fino ai tre anni, avevo scritto tempo fa un post ( http://ultimocamerlengo.blogspot.it/2013/04/carcere-femminile-il-dubbio-sulla.html ) che prendeva spunto da un bell'articolo del Corriere della Sera, che riportava commenti, riflessioni e storie.
Con mano diversa, più da scrittore, ecco che della delicatissima questione si occupa oggi Adriano Sofri, in uno articolo su Repubblica.
Io leggo spessissimo Sofri, perché è bravo, profondo e perché NON la pensa come me, di partenza, e quindi è un utilissmo confronto (biasimo assai amici e conoscenti che leggono SOLO gli autori amici, così, tanto per pensare di avere sempre ragione. Poi magari votano, e scoprono di essere in minoranza...).
Ecco, anche in questo articolo, lo seguo con attenzione, trovando parole che mi fanno riflettere, altre che mi toccano proprio e pure quelle che non condivido.
Insomma una lettura stimolante, che credo piacerà, soprattutto ai colleghi
Madri e bambini in galera
Ci sono pochi dati altrettanto rivelatori della disparità di
opportunità e di risultati fra uomini e donne che le rispettive
percentuali dei detenuti: le donne non raggiungendo il 5 per cento del
totale. (Il dato è tanto più significativo perché vale su scala
mondiale: le donne detenute sono una minoranza che va da un 2 a un 9 per
cento). E’ una circostanza enorme, cui un redivivo reverendo Swift
saprebbe rendere giustizia. Noi restiamo alle ingiustizie, non minore
fra le quali è la struttura maschile delle prigioni, in cui, con poche
eccezioni, le sezioni femminili sono appendici del tutto inappropriate
alle loro abitatrici. Che è oltretutto un paradosso, perché in molti
illustri casi le prigioni maschili sono ex-conventi femminili, e sulla
reclusione scrupolosamente efferata di monacate a forza si modellò
largamente quella degli uomini. Non ci sono specchi, in galera: che è
un’offesa agli uomini, vanitosi come sono, ma un tormento alle donne.
Disadatte a donne, le prigioni lo sono più sciaguratamente ai bambini.
Una legge consente alle madri carcerate di tenerli con sé fino ai 3 anni
di età –frase che va riletta nel suo rovescio, perché dice che i
bambini di tre anni vanno sottratti alle madri detenute. Quella legge fu
un passo avanti, rispetto alla separazione di mamme e bambini dalla
nascita, e altri passi, piccoli per lo più, importanti a volte (grazie
ad associazioni volontarie, o a stabilimenti di custodia attenuata come
l’Icam di Milano) si sono via via compiuti. Una nuova legge (dal 2014)
raddoppia l’età in cui tenere i bambini con le madri, dunque a 6 anni;
in alcune galere funzionano dei “nidi”. Ma lo scandalo dei bambini in
carcere –ce ne sono mediamente 60-70 - resta intatto. Pensate a chi
trascorra i primi tre anni in una galera in cui sia il solo bambino
–succede: l’adulto sarà Leonardo da Vinci, o una persona infelicissima.
Di Leonardo ne riescono pochi. Poi ci sono le decine di migliaia di
figli che stanno fuori, e le mamme dentro.
Cristina Scanu,
giornalista, fa uscire per Jaca Book un libro sulle carceri femminili
visitate e studiate con lungo impegno: “Mamme in prigione”. Una le
racconta: “La sera, quando chiudono le celle, ho visto bambini con le
lacrime agli occhi bussare al blindato per farsi aprire”. Il libro ha il
merito di occuparsi dell’intero universo penitenziario femminile,
agenti, direttrici, educatrici, volontarie. Non c’è persona non dico di
cuore, ma semplicemente di intelligenza e competenza, che non sia
persuasa dell’insensatezza gratuita della prigione per mamme e bambini.
Quando a Milano si inaugurò l’edificio a custodia attenuata, lo slogan
era: “Lo abbiamo aperto, ma lo chiuderemo, perché di bambini in carcere
non ce ne siano più”. Scanu ha scritto nella speranza ragionata di
contribuire a realizzarlo.
Pressoché contemporaneamente è uscito
per Einaudi un romanzo di Rosella Postorino, “Il corpo docile”. Al
centro stanno la nascita e l’infanzia in carcere; anche Postorino ne ha
avuto un’esperienza diretta, come volontaria, nella Roma in cui Leda
Colombini, gran donna –è morta nel 2011- dedicò i suoi anni maturi a
quelle madri e quei bambini. Da lei Postorino ascoltò racconti toccanti,
e ne fece tesoro: “Non potrò mai dimenticarmi gli occhi dei piccoli
quando hanno visto per la prima volta il mare, gli animali della
fattoria, la neve. Ricordo che una di loro, Edera, cercava di mettersi
la neve in tasca per portarla a sua madre e ricordo anche Eugenia che
dopo aver guardato a lungo la stanza di una delle volontarie che
ospitava i bambini a casa sua ha detto ‘che bella cella che hai!’” La
protagonista di Postorino, Milena, è nata in carcere, da una madre mite e
tradita che tentò maldestramente di uccidere il marito. “Se sei un
bambino, sconti la colpa di tua madre”. Milena ventenne torna da
volontaria al suo carcere, a occuparsi di quei bambini, a cercare nei
loro corpi che si affidano una conciliazione col proprio corpo
renitente. “In che mondo vivi?”, le chiedono tutti, convinti che il
mondo giusto sia il loro. Nel mondo di Milena c’è Eugenio, che è stato
bambino con lei in cella, ed è sempre rimasto il suo compagno. Volevano
un animale domestico, allora, e catturarono uno scarafaggio, Eugenio lo
mise in una scarpa coperta da un’altra scarpa, così era in gabbia e non
poteva uscire. Eugenio però ora sa stare anche nel mondo degli altri.
Lei no. E’ come con il letto nel salotto in cui l’hanno messa a dormire
quando l’hanno espulsa dal carcere: lo aprono la sera, lo richiudono la
mattina, lenzuola piegate, ciabatte riposte, il letto ingoiato dalla
parete, ogni traccia di lei cancellata. E’ come con le tesi che lei
scrive a pagamento per gli altri: consegna la tesi, il candidato ci
scrive il suo nome, e Milena è sparita. Che cosa fai?, le chiedono. Fa
una che non esiste, ecco che cosa fa. Arriva un uomo nella sua vita, un
uomo normale, di quell’altro mondo cui ogni sua fibra rilutta. Le
succede di poter soccorrere il bambino delle sue premure, la cui madre
evade fortunosamente dal carcere, e lei resta a mezzo fra la complicità e
la fuga. Qualcosa la richiama indietro, al suo immeritato carcere
infantile, al peccato originale. Una specie di inferno terrestre prima
della cacciata (si può dire inferno terrestre?). Ai bambini si spiega
che la prigione è il posto di chi è stato cattivo. “Se la prigione è il
posto di chi è stato cattivo, basta essere cattivi per tornarci.
Comportarsi male, per tornare nel nido delle suore, e dormire di nuovo
con la mamma”. Il romanzo è pieno di personaggi –più forti, la madre, i
bambini, o meno, come l’uomo “normale” da cui Milena è travolta, che
sembra un coglione, e forse non a caso fa il giornalista- e di cose che
succedono, con un ritmo e una concatenazione efficaci fra gli episodi. E
anche un racconto che diventa via via più incalzante, fino a
permettersi un andamento visionario (fino a ricordare Herta Müller, in
certe immagini).
Vorrei aggiungere un dubbio, oltre la mia
competenza di recensore penitenziario e non letterario. Il romanzo si
intitola “Il corpo docile”, citazione di Foucault, e pregnante.
(Pregnante, aggettivo femminile e corporale). Postorino sa come la
reclusione sia una tecnica millenaria di violazione e umiliazione dei
corpi. Che la libertà e la persona sia affare del corpo. Dunque si è
proposta –leggo in una sua intervista- “una lingua corporale e
sensoriale, tattile persino, dove ogni memoria o rimozione fosse una
traccia sul corpo, del corpo… Nell’indocilità del corpo di Milena, che
si inceppa, che non funziona bene, che la fa sentire inadatta (come
prima o poi accade, in modi diversi, a tutti noi), c’è una forma di
resistenza a quella conformità che la società pretende da lei e da
chiunque”. Ecco: mi chiedo se a questa ricerca sia appropriata
l’iperestesia patetica, l’oltranzismo psicomatico cui la scrittrice si
impegna. Ne cito alcuni esempi, sapendo di far torto a immagini estratte
dal loro contesto: “Sente il bacino segarsi, qualcosa che dal centro
del corpo deflagra fino a lambire la fronte… I capelli schizzano come
scarpe in una pozzanghera… Un’impennata di nostalgia è montata come un
dolore alle scapole…”. Fino alla più spericolata: “Milena ha occhi
vetrosi. Eugenio la guarda – le sue unghie larghe, piatte, le sue dita
storte le fanno formicolare i femori”.
“Potrei spiegare la scelta o
l’irruzione di ogni mia singola parola in quelle 230 pagine”, dice
ancora Postorino. Forse convincerebbe anche uno maschio e vecchio,
dunque anestetizzato. Uno che, di fronte a un formicolio di femori,
lascerebbe lì il libro: e in questo caso avrebbe fatto male, perché il
libro è bello e toccante.
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