lunedì 20 maggio 2013

IL BAMBINO CHE PORTA LA NEVE ALLA MAMMA. IN CELLA.


Sul difficile tema del carcere femminile e la presenza dei figli di detenute consentito fino ai tre anni, avevo scritto tempo fa un post ( http://ultimocamerlengo.blogspot.it/2013/04/carcere-femminile-il-dubbio-sulla.html ) che prendeva spunto da un bell'articolo del Corriere della Sera, che riportava commenti, riflessioni e storie.
Con mano diversa, più da scrittore, ecco che della delicatissima questione si occupa oggi Adriano Sofri, in uno articolo su Repubblica.
Io leggo spessissimo Sofri, perché è bravo, profondo e perché NON la pensa come me, di partenza, e quindi è un utilissmo confronto (biasimo assai amici e conoscenti che leggono SOLO gli autori amici, così, tanto per pensare di avere sempre ragione. Poi magari votano, e scoprono di essere in minoranza...).
Ecco, anche in questo articolo, lo seguo con attenzione, trovando parole che mi fanno riflettere, altre che mi toccano proprio e pure quelle che non condivido.
Insomma una lettura stimolante, che credo piacerà, soprattutto ai colleghi

Madri e bambini in galera

Ci sono pochi dati altrettanto rivelatori della disparità di opportunità e di risultati fra uomini e donne che le rispettive percentuali dei detenuti: le donne non raggiungendo il 5 per cento del totale. (Il dato è tanto più significativo perché vale su scala mondiale: le donne detenute sono una minoranza che va da un 2 a un 9 per cento). E’ una circostanza enorme, cui un redivivo reverendo Swift saprebbe rendere giustizia. Noi restiamo alle ingiustizie, non minore fra le quali è la struttura maschile delle prigioni, in cui, con poche eccezioni, le sezioni femminili sono appendici del tutto inappropriate alle loro abitatrici. Che è oltretutto un paradosso, perché in molti illustri casi le prigioni maschili sono ex-conventi femminili, e sulla reclusione scrupolosamente efferata di monacate a forza si modellò largamente quella degli uomini. Non ci sono specchi, in galera: che è un’offesa agli uomini, vanitosi come sono, ma un tormento alle donne. Disadatte a donne, le prigioni lo sono più sciaguratamente ai bambini. Una legge consente alle madri carcerate di tenerli con sé fino ai 3 anni di età –frase che va riletta nel suo rovescio, perché dice che i bambini di tre anni vanno sottratti alle madri detenute. Quella legge fu un passo avanti, rispetto alla separazione di mamme e bambini dalla nascita, e altri passi, piccoli per lo più, importanti a volte (grazie ad associazioni volontarie, o a stabilimenti di custodia attenuata come l’Icam di Milano) si sono via via compiuti. Una nuova legge (dal 2014) raddoppia l’età in cui tenere i bambini con le madri, dunque a 6 anni; in alcune galere funzionano dei “nidi”. Ma lo scandalo dei bambini in carcere –ce ne sono mediamente 60-70 - resta intatto. Pensate a chi trascorra i primi tre anni in una galera in cui sia il solo bambino –succede: l’adulto sarà Leonardo da Vinci, o una persona infelicissima. Di Leonardo ne riescono pochi. Poi ci sono le decine di migliaia di figli che stanno fuori, e le mamme dentro.
Cristina Scanu, giornalista, fa uscire per Jaca Book un libro sulle carceri femminili visitate e studiate con lungo impegno: “Mamme in prigione”. Una le racconta: “La sera, quando chiudono le celle, ho visto bambini con le lacrime agli occhi bussare al blindato per farsi aprire”. Il libro ha il merito di occuparsi dell’intero universo penitenziario femminile, agenti, direttrici, educatrici, volontarie. Non c’è persona non dico di cuore, ma semplicemente di intelligenza e competenza, che non sia persuasa dell’insensatezza gratuita della prigione per mamme e bambini. Quando a Milano si inaugurò l’edificio a custodia attenuata, lo slogan era: “Lo abbiamo aperto, ma lo chiuderemo, perché di bambini in carcere non ce ne siano più”. Scanu ha scritto nella speranza ragionata di contribuire a realizzarlo.
Pressoché contemporaneamente è uscito per Einaudi un romanzo di Rosella Postorino, “Il corpo docile”. Al centro stanno la nascita e l’infanzia in carcere; anche Postorino ne ha avuto un’esperienza diretta, come volontaria, nella Roma in cui Leda Colombini, gran donna –è morta nel 2011- dedicò i suoi anni maturi a quelle madri e quei bambini. Da lei Postorino ascoltò racconti toccanti, e ne fece tesoro: “Non potrò mai dimenticarmi gli occhi dei piccoli quando hanno visto per la prima volta il mare, gli animali della fattoria, la neve. Ricordo che una di loro, Edera, cercava di mettersi la neve in tasca per portarla a sua madre e ricordo anche Eugenia che dopo aver guardato a lungo la stanza di una delle volontarie che ospitava i bambini a casa sua ha detto ‘che bella cella che hai!’” La protagonista di Postorino, Milena, è nata in carcere, da una madre mite e tradita che tentò maldestramente di uccidere il marito. “Se sei un bambino, sconti la colpa di tua madre”. Milena ventenne torna da volontaria al suo carcere, a occuparsi di quei bambini, a cercare nei loro corpi che si affidano una conciliazione col proprio corpo renitente. “In che mondo vivi?”, le chiedono tutti, convinti che il mondo giusto sia il loro. Nel mondo di Milena c’è Eugenio, che è stato bambino con lei in cella, ed è sempre rimasto il suo compagno. Volevano un animale domestico, allora, e catturarono uno scarafaggio, Eugenio lo mise in una scarpa coperta da un’altra scarpa, così era in gabbia e non poteva uscire. Eugenio però ora sa stare anche nel mondo degli altri. Lei no. E’ come con il letto nel salotto in cui l’hanno messa a dormire quando l’hanno espulsa dal carcere: lo aprono la sera, lo richiudono la mattina, lenzuola piegate, ciabatte riposte, il letto ingoiato dalla parete, ogni traccia di lei cancellata. E’ come con le tesi che lei scrive a pagamento per gli altri: consegna la tesi, il candidato ci scrive il suo nome, e Milena è sparita. Che cosa fai?, le chiedono. Fa una che non esiste, ecco che cosa fa. Arriva un uomo nella sua vita, un uomo normale, di quell’altro mondo cui ogni sua fibra rilutta. Le succede di poter soccorrere il bambino delle sue premure, la cui madre evade fortunosamente dal carcere, e lei resta a mezzo fra la complicità e la fuga. Qualcosa la richiama indietro, al suo immeritato carcere infantile, al peccato originale. Una specie di inferno terrestre prima della cacciata (si può dire inferno terrestre?). Ai bambini si spiega che la prigione è il posto di chi è stato cattivo. “Se la prigione è il posto di chi è stato cattivo, basta essere cattivi per tornarci. Comportarsi male, per tornare nel nido delle suore, e dormire di nuovo con la mamma”. Il romanzo è pieno di personaggi –più forti, la madre, i bambini, o meno, come l’uomo “normale” da cui Milena è travolta, che sembra un coglione, e forse non a caso fa il giornalista- e di cose che succedono, con un ritmo e una concatenazione efficaci fra gli episodi. E anche un racconto che diventa via via più incalzante, fino a permettersi un andamento visionario (fino a ricordare Herta Müller, in certe immagini).
Vorrei aggiungere un dubbio, oltre la mia competenza di recensore penitenziario e non letterario. Il romanzo si intitola “Il corpo docile”, citazione di Foucault, e pregnante. (Pregnante, aggettivo femminile e corporale). Postorino sa come la reclusione sia una tecnica millenaria di violazione e umiliazione dei corpi. Che la libertà e la persona sia affare del corpo. Dunque si è proposta –leggo in una sua intervista- “una lingua corporale e sensoriale, tattile persino, dove ogni memoria o rimozione fosse una traccia sul corpo, del corpo… Nell’indocilità del corpo di Milena, che si inceppa, che non funziona bene, che la fa sentire inadatta (come prima o poi accade, in modi diversi, a tutti noi), c’è una forma di resistenza a quella conformità che la società pretende da lei e da chiunque”. Ecco: mi chiedo se a questa ricerca sia appropriata l’iperestesia patetica, l’oltranzismo psicomatico cui la scrittrice si impegna. Ne cito alcuni esempi, sapendo di far torto a immagini estratte dal loro contesto: “Sente il bacino segarsi, qualcosa che dal centro del corpo deflagra fino a lambire la fronte… I capelli schizzano come scarpe in una pozzanghera… Un’impennata di nostalgia è montata come un dolore alle scapole…”. Fino alla più spericolata: “Milena ha occhi vetrosi. Eugenio la guarda – le sue unghie larghe, piatte, le sue dita storte le fanno formicolare i femori”.
“Potrei spiegare la scelta o l’irruzione di ogni mia singola parola in quelle 230 pagine”, dice ancora Postorino. Forse convincerebbe anche uno maschio e vecchio, dunque anestetizzato. Uno che, di fronte a un formicolio di femori, lascerebbe lì il libro: e in questo caso avrebbe fatto male, perché il libro è bello e toccante.

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