Un film non da oscar ma che a me piace tanto è Codice D'Onore , con tanti bravissimi attori. Jack Nicholson, il colonnello cattivo, in cima a tutti, ma anche un ottimo Tom Cruise e bravi Demi Moore e Kevin Bacon . Bellissima la scena finale quando il colonnello Nathan Jessep ( Nicholson) non trattiene la voglia di dire la verità al Tenente Koffee (Cruise) : " voi non potete reggere la verità . Viviamo in un mondo pieno di muri e su quei muri ci deve essere un uomo con un fucile. Chi ci va su quei muri ? .....Voi non volete la verità, perché nei vostri desideri più segreti, inconfessabili nella società civile, voi mi volete su quel muro , io vi servo in cima a quel muro ! ..... Io non ho il tempo, né la voglia di venire qui a spiegare me stesso ad un uomo che passa la sua vita a dormire sotto la coperta di quella libertà che io gli fornisco e poi contesta il modo in cui gliela fornisco. Preferirei che mi dicesse grazie e andasse per la sua strada altrimenti gli suggerirei di prendere un fucile e mettersi lui di sentinella ".
Questo monologo mi ha sempre colpito perché in qualche modo propone il problema del confine tra diritti, libertà e sicurezza.
Io sicuramente privilegio i primi due aspetti (libertà soprattuto, nel rispetto rigoroso di quella altrui, che deve essere identica alla mia ) , ma so di essere un privilegiato, nato negli anni 60 in Italia, nella parte giusta dell'Europa. Nell'America del dopo l'11 settembre 2001, la sicurezza degli americani era per la prima minacciata all'interno del loro territorio, cosa mai accaduta prima. Di qui il problema dell'equilibrio tra valori importanti ma che possono essere confliggenti.
Sono questi i pensieri che mi sono venuti in mente leggendo del caso scoppiato negli USA con le milioni di intercettazioni autorizzate dalla Casa Bianca.
Quelle cose che in pubblico si negano ma che in segreto si fanno. Poi, arriva chi le rivela, e allora sono guai.
Non sono mai stato un fan di Obama. Non lo fui 5 anni fa, al momento della sua prima elezione (quando il mondo delirava per lui, fino alla incredibile attribuzione del premio nobel della Pace !!!) , figuriamoci alla seconda, dopo le delusioni del primo mandato. Però, nel vederlo in difficoltà su questa cosa, mi è venuto in mente questa sorta di pretesa di noi cittadini : essere totalmente liberi e totalmente sicuri.
Dobbiamo eliminare il totalmente, e trovare il giusto equilibrio tra liberi e sicuri.
Ecco l'editoriale di De Martin sulla Stampa di oggi relativo al tema
Quello scambio fra libertà e sicurezza
Per capire il senso delle rivelazioni di questi giorni, è
opportuno fare un passo indietro, fino ai campus americani di metà Anni
60. Allora, a Berkeley e altrove, gli studenti protestavano contro una
macchina che per loro era il simbolo del Sistema che volevano riformare,
ovvero, il computer. Nato durante la Seconda Guerra Mondiale, infatti,
il computer era rapidamente diventato una delle macchine cardine della
Guerra Fredda. Cardine perché strumento in grado di effettuare i calcoli
balistici e scientifici necessari a garantire la supremazia militare
americana. E cardine perché il computer consentiva di padroneggiare,
tramite l’acquisizione e l’elaborazione di informazioni, sia lo
scacchiere internazionale, sia, in parte, la società.
Appena pochi anni dopo, però, negli Anni 70 e 80, la situazione sembra
ribaltarsi: il computer, infatti, da macchina grande, costosa e controllata dal «Sistema», diventa piccolo, economico e personale. Il simbolo del controllo e persino dell’oppressione viene celebrato da molti, e non senza ragione, come strumento di liberazione e di «empowerment» dell’individuo. Col decollo di Internet, poi, l’entusiasmo dei libertari digitali è alle stelle, come dimostra in modo emblematico la Dichiarazione di Indipendenza del Cyberspazio del 1994.
Ma proprio a metà degli Anni 90 diversi fattori convergono per cambiare lo scenario.
Il primo è l’emergere delle grandi piattaforme che da una parte rendono molto più facile pubblicare online, blog, foto, video, ecc., ma che dall’altra rendono possibili forme altamente efficienti di sorveglianza delle attività degli utenti. Con l’emergere di piattaforme dominanti, poi, i Governi - e in particolare quello americano, visto che quasi tutte le piattaforme sono basate negli Usa - tornano ad avere la situazione preferita ovvero alcuni, pochi interlocutori a cui chiedere favori o dare ordini.
Il secondo fattore è la diffusione di massa degli «smartphone», computer sempre connessi che contengono e producono una quantità enorme di dati sulla nostra vita personale e professionale.
Il terzo fattore è l’incredibile riduzione dei costi di immagazzinamento dati, costi così bassi che a un certo punto diventa possibile, anche per governi non particolarmente dotati di mezzi, memorizzare le tracce digitali prima di alcuni cittadini, poi di milioni di cittadini e infine di tutti i cittadini.
Con l’11 settembre 2001 la politica americana (e non solo), consapevole dei fattori di cui sopra, reagisce all’attentato cambiando il corso della storia digitale. Torna prepotente il desiderio, nato con la Guerra Fredda, di sviluppare una «consapevolezza informativa totale», che però questa volta si realizza davvero, visto che è diventato economicamente sostenibile ciò che una volta avrebbe richiesto risorse che nemmeno il Paese più ricco del mondo poteva mettere in campo.
Al posto dell’Unione Sovietica, c’è ora il terrorismo. Al posto di pochi «mainframe», ci sono miliardi di telefoni e di computer nelle tasche e nelle case di molti. Al posto del web decentralizzato degli esordi, c’è una manciata di grandi piattaforme, usate da miliardi di persone e praticamente tutte americane.
Se oggi gli studenti tornassero a protestare avrebbero, quindi, un bersaglio molto più difficile dei loro predecessori degli Anni 60. Un bersaglio nelle tasche di ciascuno di loro, un bersaglio profondamente ambiguo perché portatore anche di grandi benefici personali e collettivi.
La protesta dovrebbe allora necessariamente abbandonare l’attenzione alla macchina in quanto tale per concentrarsi sulle grandi questioni della democrazia e dei diritti. Ponendo con forza soprattutto due domande: quanta libertà siamo pronti a sacrificare in cambio di (forse) più sicurezza? E quanto a lungo può sopravvivere la democrazia se le attività dei governi non sono soggette a limiti e a controlli?
Appena pochi anni dopo, però, negli Anni 70 e 80, la situazione sembra
ribaltarsi: il computer, infatti, da macchina grande, costosa e controllata dal «Sistema», diventa piccolo, economico e personale. Il simbolo del controllo e persino dell’oppressione viene celebrato da molti, e non senza ragione, come strumento di liberazione e di «empowerment» dell’individuo. Col decollo di Internet, poi, l’entusiasmo dei libertari digitali è alle stelle, come dimostra in modo emblematico la Dichiarazione di Indipendenza del Cyberspazio del 1994.
Ma proprio a metà degli Anni 90 diversi fattori convergono per cambiare lo scenario.
Il primo è l’emergere delle grandi piattaforme che da una parte rendono molto più facile pubblicare online, blog, foto, video, ecc., ma che dall’altra rendono possibili forme altamente efficienti di sorveglianza delle attività degli utenti. Con l’emergere di piattaforme dominanti, poi, i Governi - e in particolare quello americano, visto che quasi tutte le piattaforme sono basate negli Usa - tornano ad avere la situazione preferita ovvero alcuni, pochi interlocutori a cui chiedere favori o dare ordini.
Il secondo fattore è la diffusione di massa degli «smartphone», computer sempre connessi che contengono e producono una quantità enorme di dati sulla nostra vita personale e professionale.
Il terzo fattore è l’incredibile riduzione dei costi di immagazzinamento dati, costi così bassi che a un certo punto diventa possibile, anche per governi non particolarmente dotati di mezzi, memorizzare le tracce digitali prima di alcuni cittadini, poi di milioni di cittadini e infine di tutti i cittadini.
Con l’11 settembre 2001 la politica americana (e non solo), consapevole dei fattori di cui sopra, reagisce all’attentato cambiando il corso della storia digitale. Torna prepotente il desiderio, nato con la Guerra Fredda, di sviluppare una «consapevolezza informativa totale», che però questa volta si realizza davvero, visto che è diventato economicamente sostenibile ciò che una volta avrebbe richiesto risorse che nemmeno il Paese più ricco del mondo poteva mettere in campo.
Al posto dell’Unione Sovietica, c’è ora il terrorismo. Al posto di pochi «mainframe», ci sono miliardi di telefoni e di computer nelle tasche e nelle case di molti. Al posto del web decentralizzato degli esordi, c’è una manciata di grandi piattaforme, usate da miliardi di persone e praticamente tutte americane.
Se oggi gli studenti tornassero a protestare avrebbero, quindi, un bersaglio molto più difficile dei loro predecessori degli Anni 60. Un bersaglio nelle tasche di ciascuno di loro, un bersaglio profondamente ambiguo perché portatore anche di grandi benefici personali e collettivi.
La protesta dovrebbe allora necessariamente abbandonare l’attenzione alla macchina in quanto tale per concentrarsi sulle grandi questioni della democrazia e dei diritti. Ponendo con forza soprattutto due domande: quanta libertà siamo pronti a sacrificare in cambio di (forse) più sicurezza? E quanto a lungo può sopravvivere la democrazia se le attività dei governi non sono soggette a limiti e a controlli?
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