Il Camerlengo è presidenzialista . Credo si sia capito però lo dico chiaramente. Lo sono sempre stato, fin da ragazzo, preferendo il sistema americano e appassionandomi alle loro elezioni. Mi piace l'idea del leader che guida una Nazione, che ha una visione e la trasmette al suo popolo. So bene che ci sono difetti e controindicazioni ma preferisco questi a quelli del parlamentarismo inconcludente.
Soprattutto, non mi piace la politica dei veti, il consociativismo esasperato, l'eterna palude. Va bene ascoltare, va bene confrontarsi, però alla fine bisogna decidere. Da noi questo non avviene e i risultati si vedono.
Mi lascia perplesso, molto, la tesi che sento spesso fare e che oggi leggo proposta anche da un giornalista che apprezzo, Filippo Facci : non è il presidenzialismo che non va bene in sé, ma siamo noi italiani che non andiamo bene per quel sistema. Ora, messa così, non è accettabile. Non perché i difetti elencati da Facci, e che potete leggere di seguito, non siano veri (semmai non sono solo quelli...). Ma perché allora sono fin troppe le cose per cui non siamo maturi abbastanza ! Nemmeno il suffragio universale allora per gli italiani va bene, con questo spirito.
Al commento di Facci, faccio seguire quello di Giacalone, che appoggia invece la riforma presidenziale, aggiungendo un suggerimento che ho già fatto mio : facciamo sul tema un referendum di indirizzo. Chiediamo agli italiani se preferiscono il sistema Parlamentare o quello Presidenziale . E' un quesito secco, semplice, sia pure nella sua importanza, un SI' o un NO, come ai tempi del Divorzio e dell'Aborto, e, ancora prima, della scelta tra Monarchia e Repubblica.
Zagrebelski, Scalfari, Repubblica e le sue penne, quelli del Fatto, la CGIL faranno la loro campagna e i presidenzialisti faranno la loro.
Poi però si voti, e, soprattutto, si rispetti il voto.
Buona Lettura
Ecco perché dico no al presidenzialismo
Che gli italiani facciano schifo, però, non è proibito
pensarlo: io per esempio lo penso, ma dovrei impiegare almeno una pagina
per spiegare decentemente che cosa intendo dire. Del resto, in discorsi
privati, l’ho sentito dire centinaia di volte: che gli italiani sono
civicamente immaturi, politicamente inaffidabili, orgogliosamente
inconsistenti. In pubblico è diverso, e che lo dica un politico resta
penoso. Ma ciò non elimina i dati storici di questo Paese: la velocità
nel passare da fascismo ad antifascismo, dagli anni Settanta agli
Ottanta, da Craxi a Di Pietro, da un conformismo all’altro, dall’azione
alla reazione. Se i partiti del Dopoguerra sono crollati
progressivamente tutti (il partito più vecchio, oggi, è la Lega) è anche
perché gli italiani sono un po’ volatili. Dall’altra, oggi, lo scenario
è inquietante: non si vede altro che una classe politica impegnata a
blandire l’elettorato, carezzarlo per il verso giusto, comprenderlo,
giustificarlo, sino a fargli credere - complici certi talkshow - che la
vita gliela debbano risolvere interamente i politici. Ma i politici non
sono pedagoghi, e gli elettori non sono bambini. Il grande equivoco del
populismo tuttavia può solo peggiorare, da noi. Grillo, poi, ha
abbassato enormemente l’asticella: e gli altri inseguono. Ecco perché
no, non ce la vedo una Repubblica presidenziale. Non mi fido. Di loro,
ma sosprattutto di noi.
di Filippo Facci
La Costituzione vigente è in coma artificiale, protetta dagli stessi che ne hanno lungamente sviato l’attuazione. La Costituzione futura è un gioco di società, con cui ci si trastulla fin dai tempi della commissione Bozzi (1983). Diciamo che c’è un accordo generale sulla necessità di riformare la Carta, salvo poi non farlo e procedere a spizzichi e bocconi, ammaccandola e scassandola, senza alcun disegno coerente. Nel frattempo non si contano i deragliamenti, compreso il fatto che dal Colle si tampina il governo perché avvii riforme costituzionali che, s’insegnava un tempo, sono materia parlamentare. Abbiamo anche un ministro per le riforme costituzionali, come se fosse questione da amministrare. E’ stata nominata l’ennesima commissione d’esperti (35 professori, recanti 70 idee diverse, con apposita cerimonia quirinalizia e annesso pungolo presidenziale), come se studiare non fosse attività preliminare al parlare, ma collaterale al prender tempo.
Conosciamo la commedia a memoria: gli astanti s’atteggiano a pensosi costituenti, fin quando qualcuno non suona l’allarme sull’imminente fine della libertà, e quando la scena restituisce un caotico accapigliamento si alza uno a dire: altre sono le priorità, come il lavoro, i giovani e l’economia. Già il fatto che sfugga il nesso fra solidità istituzionale ed efficacia del governo, ivi comprese le materie economiche, la dice lunga sulla natura letteraria, direi romanzesca, di certi dibattiti.
A Bologna si son riuniti quelli di Libertà e Giustizia, che son conservatori certi d’esser progressisti. Giù le mani dalla Costituzione più bella del mondo, che non è definizione che si debba alla nobile anima di un costituente, ma a quella di un comico. Transeat. Ma la cosa curiosa è che considerano nefando qualsiasi passo verso il presidenzialismo, laddove i costituenti del Partito d’Azione (Piero Calamandrei e Leo Valiani), alle cui simbologie si richiamano, erano, appunto, presidenzialisti. Ma che bestemmia sto dicendo? Sto forse affermando che il nobile Pd’A sosteneva quel che oggi sostiene il crapulone priapesco? La bestemmia, in vero, consiste proprio nella loro posizione, così supinamente schiava del berlusconismo.
Il semipresidenzialismo alla francese (che affascinò un eroe della Resistenza e della guerra di Spagna, quel Randolfo Pacciardi che fu prontamente tacciato di fascismo da una sinistra comunista colma di supponenti ignorantoni) s’accende a intermittenza sul capino ora di certa destra, ora di certa sinistra. Mai contemporaneamente, altrimenti va a finire che si quaglia qualche cosa. Orbene, ma lo sanno, i nostri costituzionalisti per caso, come fece Charles De Gaulle a far passare l’elezione diretta del presidente della Repubblica? Con un referendum, nel 1962. La sinistra francese gridò alla dittatura e il presidente del Senato fece ricorso al Conseil Costitutionnel (la nostra Corte Costituzionale), che lo mandò a spigolare, sostenendo: quando parla il popolo la Corte tace. Saggio. Quel genere di referendum non c’era, nella Costituzione della quarta Repubblica francese, fu una forzatura. Mentre le riforme costituzionali potevano farsi seguendo i dettami dell’articolo 89 (che era un po’ come il nostro 138). Infatti non si facevano. Il vero colpo di De Gaulle fu il referendum, non il presidenzialismo. Nel senso che trovò nella consultazione lo strumento per riformare. Istruttivo.
Nel nostro sistema i referendum costituzionali si fanno dopo le riforme e servono a impedirle. Quelli abrogativi si fanno a piacimento, tanto poi se ne viola il risultato (ottimi i cinque radicali sulla giustizia, ma, appunto, taluno l’avevamo già fatto). Giriamo la frittata: non è vietato convocare referendum d’indirizzo. Facciamolo. Voglio vedere come potrebbe una classe politica tremula e sfiancata, priva di coraggio e idee, ignorarne il risultato. Certo, la riforma non può essere una sola, occorre riscrivere l’intero equilibrio fra i poteri. Ma almeno si partirebbe da punti sicuri. E’ più importante l’economia? Lo è, come no. Ma ripetetemelo dopo avere assistito allo snocciolamento di rinvii delle proroghe e proroghe dei rinvii, con gran rissa su tassucce marginali nel mentre il torchio fiscale strizza a dovere la sudditanza, dopo avere riascoltato per la centesima volta moniti altolocati e guaiti dissociati indicanti quel che si dovrebbe fare e non si fa.
di Filippo Facci
Parola al popolo
La sgradevole impressione è che ci si sia imbarcati nell’ennesimo dibattito costituzionale senza costrutto, destinato a finire nel nulla. S’abbozzerà una diversa legge elettorale, che non è materia costituzionale. Per evitare tale esito infausto, capace solo di togliere solennità alla Costituzione e giustificarne le continue violazioni, un sistema c’è: dare la parola al popolo.
La Costituzione vigente è in coma artificiale, protetta dagli stessi che ne hanno lungamente sviato l’attuazione. La Costituzione futura è un gioco di società, con cui ci si trastulla fin dai tempi della commissione Bozzi (1983). Diciamo che c’è un accordo generale sulla necessità di riformare la Carta, salvo poi non farlo e procedere a spizzichi e bocconi, ammaccandola e scassandola, senza alcun disegno coerente. Nel frattempo non si contano i deragliamenti, compreso il fatto che dal Colle si tampina il governo perché avvii riforme costituzionali che, s’insegnava un tempo, sono materia parlamentare. Abbiamo anche un ministro per le riforme costituzionali, come se fosse questione da amministrare. E’ stata nominata l’ennesima commissione d’esperti (35 professori, recanti 70 idee diverse, con apposita cerimonia quirinalizia e annesso pungolo presidenziale), come se studiare non fosse attività preliminare al parlare, ma collaterale al prender tempo.
Conosciamo la commedia a memoria: gli astanti s’atteggiano a pensosi costituenti, fin quando qualcuno non suona l’allarme sull’imminente fine della libertà, e quando la scena restituisce un caotico accapigliamento si alza uno a dire: altre sono le priorità, come il lavoro, i giovani e l’economia. Già il fatto che sfugga il nesso fra solidità istituzionale ed efficacia del governo, ivi comprese le materie economiche, la dice lunga sulla natura letteraria, direi romanzesca, di certi dibattiti.
A Bologna si son riuniti quelli di Libertà e Giustizia, che son conservatori certi d’esser progressisti. Giù le mani dalla Costituzione più bella del mondo, che non è definizione che si debba alla nobile anima di un costituente, ma a quella di un comico. Transeat. Ma la cosa curiosa è che considerano nefando qualsiasi passo verso il presidenzialismo, laddove i costituenti del Partito d’Azione (Piero Calamandrei e Leo Valiani), alle cui simbologie si richiamano, erano, appunto, presidenzialisti. Ma che bestemmia sto dicendo? Sto forse affermando che il nobile Pd’A sosteneva quel che oggi sostiene il crapulone priapesco? La bestemmia, in vero, consiste proprio nella loro posizione, così supinamente schiava del berlusconismo.
Il semipresidenzialismo alla francese (che affascinò un eroe della Resistenza e della guerra di Spagna, quel Randolfo Pacciardi che fu prontamente tacciato di fascismo da una sinistra comunista colma di supponenti ignorantoni) s’accende a intermittenza sul capino ora di certa destra, ora di certa sinistra. Mai contemporaneamente, altrimenti va a finire che si quaglia qualche cosa. Orbene, ma lo sanno, i nostri costituzionalisti per caso, come fece Charles De Gaulle a far passare l’elezione diretta del presidente della Repubblica? Con un referendum, nel 1962. La sinistra francese gridò alla dittatura e il presidente del Senato fece ricorso al Conseil Costitutionnel (la nostra Corte Costituzionale), che lo mandò a spigolare, sostenendo: quando parla il popolo la Corte tace. Saggio. Quel genere di referendum non c’era, nella Costituzione della quarta Repubblica francese, fu una forzatura. Mentre le riforme costituzionali potevano farsi seguendo i dettami dell’articolo 89 (che era un po’ come il nostro 138). Infatti non si facevano. Il vero colpo di De Gaulle fu il referendum, non il presidenzialismo. Nel senso che trovò nella consultazione lo strumento per riformare. Istruttivo.
Nel nostro sistema i referendum costituzionali si fanno dopo le riforme e servono a impedirle. Quelli abrogativi si fanno a piacimento, tanto poi se ne viola il risultato (ottimi i cinque radicali sulla giustizia, ma, appunto, taluno l’avevamo già fatto). Giriamo la frittata: non è vietato convocare referendum d’indirizzo. Facciamolo. Voglio vedere come potrebbe una classe politica tremula e sfiancata, priva di coraggio e idee, ignorarne il risultato. Certo, la riforma non può essere una sola, occorre riscrivere l’intero equilibrio fra i poteri. Ma almeno si partirebbe da punti sicuri. E’ più importante l’economia? Lo è, come no. Ma ripetetemelo dopo avere assistito allo snocciolamento di rinvii delle proroghe e proroghe dei rinvii, con gran rissa su tassucce marginali nel mentre il torchio fiscale strizza a dovere la sudditanza, dopo avere riascoltato per la centesima volta moniti altolocati e guaiti dissociati indicanti quel che si dovrebbe fare e non si fa.
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