martedì 30 luglio 2013

LE STRANE GIRAVOLTE DI RENZI E IL FANTASMA DI MARIO SEGNI

 

Francamente, parlare delle contorsioni del PD, del suo congresso, mentre a P.za Cavour a Roma si sta svolgendo l'udienza che potrebbe cambiare la storia politica italiana per come l'abbiamo conosciuta negli ultimi due decenni, sembra cosa inutile (probabilmente proprio lo è).
Eppure due valenti politologi come Giacalone e Galli della Loggia se ne occupano, il secondo proprio nell'editoriale odierno del Corriere della Sera. In attesa che i giudici si pronuncino e decidano non solo di un processo ma di ben di più (è un fatto, non un'opinione. Il campo dell'opinabile riguarda semmai come ci si sia arrivati a questa deriva...) , occupiamocene anche noi, visto che, come sempre, i due comunque degli spunti interessanti ne offrono.
Entrambi partono da una considerazione che ai renziani ( e ai simpattizanti del sindaco toscano, di cui io faccio ancora parte, ma con dubbi crescenti, confesso) non piacerà : il segretario di un partito è giusto lo eleggano gli iscritti, cioè coloro che non si limitano a simpatizzare ma che hanno un senso di appartenenza vera. E' sempre stato così, fino all'invenzione delle primarie, che in Europa fa solo il PD...Se ne vanta anche molto ma finora se ne sono visti più disastri che altro. Nelle grandi città, il sindaco è regolarmente un ALTRO dal partito democratico : a Milano c'è Pisapia (meglio come avvocato garantista e amante dei diritti civili mi sembra che come sindaco...), a Genora c'è Doria, a Palermo c'è Orlando e a Napoli c'è De Magistris (gli ultimi due nomi è imbarazzante solo scriverli). Tutta gente che SENZA i voti Democrats non sarebbe mai stata eletta, ma nemmeno sarebbe andata vicino ad esserlo.
Tornando al Congresso, quello che scrivono Galli della Loggia e Giacalone è sacrosanto, però è anche vero che il Partito Democratico, quando nacque, voleva essere una novità rispetto al sistema tradizionale che loro correttamente descrivono, Un partito più liquido, fluido, e quindi non chiuso alle sezioni e alla militanza. Per questo motivo le primarie, che davano la possibilità di allargare il voto anche ai meri simpatizzanti e addirittura a coloro non propriamente di sinistra, ma favorevoli alle idee portate avanti da quel particolare candidato.
Ecco, secondo me bisogna che il PD decida se è ancora il partito inedito e sperimentale nato nell'inverno 2007 oppure è tornato quello tradizionale che si muove sulla scia del vecchio PCI, poi diventato PDS e DS.
Se è la seconda cosa, come credo, allora Renzi sta semplicemente nel posto sbagliato, e deve uscire invece di pretendere di stare in paradiso a dispetto dei santi, facendosi una strada sua.
Come bene appunto scrive Giacalone nell'articolo che segue.

Trappola sinistra

Il Partito democratico è finito nella trappola che ha accuratamente e lungamente costruito. Ora si dimena, con il risultato di serrare i nodi che lo strangolano. La trappola nasce da un’illusione diffusa dall’avversario: Silvio Berlusconi cercò di far credere agli elettori che votando il suo partito lo nominavano direttamente alla guida del governo. Naturalmente non era vero, perché la Costituzione è, sul punto, ancora quella del 1948, eppure una quota di suoi sostenitori ci credette. La cosa paradossale è che ci credette tutta la sinistra. Essendo allocchi, ma sentendosi furbissimi, elaborarono complicati sistemi per dire: è vero quello che dice Silvio, credetegli, ma solo noi siamo così bravini e buonini da far scegliere agli altri i candidati (senza che sia mai stato vero, se non per le elezioni locali, dove, difatti, i candidati Pd perdevano in serie). Teoria e tecnica dell’autodistruzione.
 Ora si ritrovano con una missione da compiere: riuscire a eliminare il solo in grado di vincere le elezioni. Dal canto suo lo stesso Matteo Renzi s’è messo a collaborare con la propria distruzione. Gli uni e gli altri praticando il divorzio fra linea politica ed equilibrismi interni al partito.
Renzi, il giorno dopo le elezioni di febbraio, aveva la stessa opinione che qui cercavamo di spiegare. Nulla di originale, né per lui né per noi, ma pur sempre l’opposto di quel che diceva il Pd: l’unica maggioranza possibile è quella che vede alleati il Pd e il Pdl. Andò così, e, per sovrappiù, si aggregarono anche i montiani (che poi montiani non sono, dato che nel giro di qualche settimana scoprirono d’essere assai diversi fra loro: una sola lista, ma infinite scelte, non si sa se civiche). Dopo la nascita del governo Letta è successo quel che succede ricorrentemente, nella storia di questa sinistra: dopo avere avversato una cosa non solo vi partecipano, ma pretendono d’esserne gli unici interpreti e difensori. Così il Pd di Guglielmo Epifani s’è messo i panni del lettiano a oltranza e, quindi, per mero equilibrismo interno, il Renzi che lo fu ancor prima di Letta ne divenne critico. Come noi, del resto, perché era ed è vero che non c’era altra maggioranza possibile, ma non per questo è possibile accettare che si vada avanti nel nulla e nulla combinando.
Ribaltate le posizioni, i democratici sono passati a ribaltare la logia.
Ora, con tutta la buona volontà, chi credete che debba eleggerlo il segretario di un partito, se non gli iscritti a quel partito? Al più con la collaborazione dei movimenti collaterali. Ma i renziani sostengono il contrario, evidentemente convinti d’essere più forti fra i non democratici (intesi come iscritti al partito). Il che è vero, ma è esattamente per questa ragione che sostenemmo, prima delle scorse elezioni politiche, che se Renzi non avesse messo in conto la rottura (e non la mise), avrebbe fatto la fine di Mario Segni: da dominus dei consensi a soggetto marginale.
Incaponirsi a volere far votare i passanti, invece, significa far confusione fra le nomine di partito e le indicazioni elettorali. Posto che non si vota per il presidente del consiglio, riportando tutti alla casella numero uno: l’illusione berlusconiana. Già, dice Renzi, ma non ciurliamo nel manico: il prossimo segretario sarà anche il prossimo candidato alla guida del governo. E qui siamo nel caos più totale, sia perché ci si ricolloca in quella disgraziata casella numero uno, sia perché l’identità fra segretario e capo del governo è esattamente quel che Renzi negò quando il segretario era Pier Luigi Bersani, tanto che fecero le primarie. Le vinse l’emiliano, che così cessò di fare il segretario senza certo andare a governare. Ora è Renzi che pretende di far valere quel che allora considerava un’offesa alla libertà e alla democrazia.
Da vecchio ammiratore della Leopolda, desidero lanciare a Renzi un secondo avviso: guardi che la fine di Segni non fu certo infamante, fu solo una sconfitta. C’è di peggio. Ma mi sfugge perché voglia sperimentarlo sulla propria pelle.


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