martedì 6 agosto 2013

ANCHE NAPOLITANO PONE IL PROBLEMA DELLA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA. INIZIAMO COI REFERENDUM RADICALI



Angelo Panebianco è politologo di fama ed editorialista di punta del Corriere della Sera da vari lustri. Professore di Scienze Politiche all'Alma Mater di Bologna, città in cui è nato. 
Liberale e realista, quindi avversario di coloro tendenti all'ideologizzazione , ancorché ovviamente profondo conoscitore della grandi ideologie del ventesimo secolo, comunismo compreso.
Ricordo questo C.V. a coloro che non conoscono il cursus honorum del professore e magari, leggendo solo oggi i suoi editoriali, si fanno venire il dubbio di trovarsi di fronte ad un amico di Berlusconi solo perché, per esempio, da tempo critica severamente la magistratura. 
L'articolo di oggi è in questo senso, ed è un'autentica lectio magistralis , da conservare e ripassare ogni tanto.
La riporto integralmente di seguito, qui sintetizzo i tre punti che ritengo essenziali :
1) Per riformare la giustizia bisogna riformare la magistratura. E su questo la politica ha trovato e troverà un muro granitico. Separare finalmente le carriere dei pm dai giudici, modificare i criteri di carriera di questi ultimi, rinunciare all'utopia dell'obbligatorietà dell'azione penale (teorica e quindi lasciata alle priorità stabilite dai prcouratori capo dei vari distretti ) , trasformare il modo di accesso alla magistratura, introdurre una seria disciplina della responsabilità civile (che in teoria ci sarebbe pure...ma molto in teoria), introurre criteri di aggiornamento e specializzazione (che almeno determinate materie sono veramente divenute troppo complesse per un giudice "tuttologo" ) e si potrebbe continuare...Bene, tutto questo richiede impegno, studio, messa in discussione, rinuncia a rendite di posizione e di influenza (potere),  tutta roba aliena alla casta magistratuale
2) E' un fatto che la magistratura abbia esondato in diversi casi dalle sue funzioni, facendo lei quell'invasione di campo che così spesso lamenta e denuncia si voglia fare nei suoi confronti. Non è l'ndipendenza e l'autonomia dell 'ordinamento giudiziario in pericolo ma semmai quella  del potere legislativo e governativo (recenti due conflitti di attribuzione dei poteri avanti alla Consulta - le intercettazioni del Capo dello Staro e il decreto ILVA - finiti entrambi con la sconfitta delle procure tracimanti , ma mica si può sempre finire davanti ai giudici costituzionali...che poi anche lì...). Perché la Politica riprenda il suo spazio, c'è bisogno peraltro che la stessa risolva i suoi grandi problemi di credibilità ed efficienza. Solo una classe politica che riguadagnasse un adeguato livello di fiducia popolare potrebbe, per esempio, ripristinare quel saggio baluardo che era l'immunità parlamentare, così come era stato voluto e costituzionalizzato dai fondatori della Repubblica, e poi demolito dall'orda vandalica di Mani Pulite e del popolo giacobino infoiato da quella stagione. 
3) I primi due punti sono di ardua se non impossibile soluzione. La situazione, nel medio periodo, potrebbe almeno migliorare con un cambiamento del programma di studi a Giurisprudenza, quantomeno  per coloro che poi intendono provare a diventare magistrati o "commis" di stato. Oggi, osserva  Panebianco, le materie sono pressoché escluivamente di diritto, mentre la complessità della società attuale richiede una conoscenza più vasta, che favorisca la sensibilità di giudici e burocrati sulle conseguenze del loro operato, laddove oggi è più spesso dato vedere una prevalente ottusità. Lo studio serio di materie come economia e statistica potrebbe forse far intravedere a giudici e burocrati i disastri di un modo di procedere coi paraocchi. 
 Forse è per tutte queste ragioni che il Presidente Napolitano ha recentemente dichiarato che la riforma della giustizia è problema non più eludibile. E una buona mano al parlamento in questo senso potrebbe venire dal successo dei referendum radiclali, che auspico e che nel mio piccolo intendo favorire.
Buona Lettura

 

"GIUSTIZIA, LA RIFORMA PIÙ DIFFICILE"  
 
Così come non c'è mai stata nessuna Seconda Repubblica, la condanna di Berlusconi non farà nascere la Terza. La Repubblica è una soltanto, sempre la stessa. Che cambino o meno uomini, partiti o leggi elettorali. Ed essendo la stessa, le sue tare e i suoi conflitti di fondo si perpetuano. Così è per lo squilibrio di potenza fra magistratura e politica, uno squilibrio che secondo molti, compreso lo scomparso presidente della Repubblica Francesco Cossiga, risale a molto tempo prima delle inchieste di Mani Pulite di venti anni fa.
Al momento, apparentemente, tutto è come al solito: con Berlusconi e la destra contrapposti alla magistratura e la sinistra abbracciata ai magistrati. Gli uni reagiscono a quella che ritengono una orchestrata persecuzione. Gli altri si aggrappano alla magistratura, un po' per antiberlusconismo, un po' perché una parte dei loro elettori considera i magistrati (i pubblici ministeri soprattutto) delle semi-divinità o giù di lì, e un po' perché sperano in trattamenti «più comprensivi» di quelli riservati alla destra.
Ma lo squilibrio di potenza c'è (anche i magistrati più seri lo riconoscono) e, insieme alla grande inefficienza del nostro sistema di giustizia, richiederebbe correttivi. Una seria riforma della giustizia, del resto, l'ha chiesta anche il presidente della Repubblica, di sicuro non sospettabile di interessi partigiani.
Ma la domanda è: può un potere debole e diviso imporre una «riforma» a un potere molto più forte (e molto più unito) contro la volontà di quest'ultimo? Frugando in tutta la storia umana non se ne troverà un solo esempio.
La magistratura è l'unico «potere forte» oggi esistente in questo Paese e lo è perché tutti gli altri poteri, a cominciare da quello politico, sono deboli. Non permetterà mai al potere debole, al potere politico, di riformarla. Certo, si potranno forse fare — ma solo se i magistrati acconsentiranno — interventi volti ad introdurre un po' più di efficienza: sarebbe già tanto, per esempio, ridurre i tempi delle cause civili. Ma non ci sarà nessuna «riforma della giustizia» se per tale si intende una azione che tocchi i nodi di fondo: separazione delle carriere, trasformazione del pubblico ministero da superpoliziotto in semplice avvocato dell'accusa, revisione delle prerogative e dei meccanismi di funzionamento del Csm, cambiamento dei criteri di reclutamento e promozione dei magistrati, riforma dell'istituto dell'obbligatorietà dell'azione penale, eccetera. La classe politica, in tanti anni, non è riuscita nemmeno a varare una decente legge per impedire la diffusione pilotata delle intercettazioni. Altro che «riforma della giustizia».
Il problema va aggredito da un'altra prospettiva. C'è un solo modo per porre rimedio allo squilibrio di potenza: rafforzare la politica. Ci si concentri su provvedimenti che possano ridare, col tempo, forza e legittimità al potere politico: una seria riforma costituzionale che renda più efficace l'azione dei governi, un radicale cambiamento delle modalità di finanziamento dei partiti, una drastica contrazione dell'area delle rendite politiche, delle rendite controllate e distribuite dai politici nazionali e locali (vera causa, al di là della demagogia, degli altissimi costi della politica).
Ci si concentri, insomma, su alcune cause certe della debolezza, e della mancanza di credibilità, che affliggono il potere politico.
Solo così sarà possibile avviare un processo che porti ad annullare lo squilibrio di potenza. Anche se ci vorranno anni per riuscirci.
Al momento, dunque, non si può fare nulla in materia di giustizia? Qualcosa forse sì, ma richiede lungimiranza (perché i frutti si vedrebbero solo dopo molto tempo). Si affronti il problema là dove tutto è cominciato: si rivoluzionino i corsi di studio in giurisprudenza (e pazienza se i professori di diritto strilleranno). Si incida sulle competenze, e sulle connesse «mentalità», di coloro che andranno a fare i magistrati (ma anche gli amministratori pubblici). Si iniettino dosi massicce di «sapere empirico» in quei corsi. Si riequilibri il formalismo giuridico con competenze economiche e statistiche, e con solide conoscenze (non solo giuridiche) delle macchine amministrative e giudiziarie degli altri Paesi occidentali. Si addestrino i futuri funzionari, magistrati e amministratori, a fare i conti con la complessità della realtà. È ormai inaccettabile, ad esempio, che un magistrato, o un amministratore, possano intervenire su delicate questioni finanziarie o industriali senza conoscenze approfondite di finanza o di economia industriale. È inaccettabile che gli interventi amministrativi o giudiziari siano fatti da persone non addestrate a valutare l'impatto sociale ed economico delle norme e delle loro applicazioni. Il diritto è uno strumento di regolazione sociale troppo importante per lasciarlo nelle mani di giuristi puri.
Lo squilibrio di potenza permarrà a lungo. La politica, per venirne a capo, deve ispirarsi a una antica tradizione militare cinese. Le serve una «strategia indiretta». Sono sconsigliati gli attacchi frontali.

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