Il mondo è un posto difficile in cui vivere. Ma non ne abbiamo altri. Lo è diventato ancora di più con l'informazione massiccia ed immediata di quanto vi accade, e che ci mette di fronte alle nostre contraddizioni, quando non debolezze e vigliaccherie.
Ne fa uno spietato elenco Pierluigi Battista nel suo lungo intervento sulla Lettura, il settimanale di approfondimento culturale del Corriere della Sera.
Ipocrisia democratica"
Molti di noi, democratici ostentatamente legati ai valori dell'Occidente, non lo avrebbero creduto possibile: sperare un giorno nella riuscita di un golpe, non indignarsi per la repressione militare, vedere nei soldati che sparano sulla folla, lasciando sul terreno centinaia di vittime, nientemeno che il «male minore». E invece eccoci qui, ad assistere al Cairo al rovesciamento delle priorità date per scontate, a considerare l'«universalità» dei valori della democrazia, tante volte sbandierata, il residuo illusorio di una stagione di sfrenato idealismo. Bisogna cambiare atteggiamento, dopo l'apocalisse egiziana. Charles Kupchan, il grande esperto di relazioni internazionali, l'ha detto con brutale chiarezza: con il sanguinoso fallimento della «primavera araba» dobbiamo bilanciare il nostro svagato idealismo democratico con robuste dosi di gelido realismo. Dobbiamo sapere che l'involucro vuoto della democrazia diventa un ordigno troppo pericoloso se consegnato nelle mani dei suoi nemici più irriducibili. Altro che primavera. Nei carri armati stabilizzatori dobbiamo sperare per evitare il peggio. Un tracollo così rovinoso dei valori democratici, alla fine, coincide con il trionfo dell'ipocrisia. Proprio mentre i dirigenti del capitalcomunismo di Pechino diramano una direttiva in cui si mette in guardia la Cina dall'assimilare i sette peccati capitali dell'Occidente liberaldemocratico, quest'ultimo sembra rinunciare a se stesso, appena varcati i confini della propria area geopolitica. Dicono i comunisti cinesi («Documento numero nove» del Comitato centrale del Pcc): va bene lo sviluppo capitalistico, ma attenzione a non importare insieme a esso il lascito velenoso della sua ideologia, il pericolo che si annida nelle «Costituzioni democratiche», nei «valori universali dei diritti dell'uomo», nell'indipendenza dei media, nella «partecipazione civica», nel «neoliberalismo» e nelle «critiche nichiliste alla storia del Partito». Ma mentre la Cina cerca di creare una rete protettiva per non farsi invadere dalla cultura tossica della liberaldemocrazia, i liberaldemocratici lasciano correre. La difesa dei diritti umani? Un lusso che non possiamo più permetterci e che al massimo possiamo appaltare a volenterosi attori liberal desiderosi di sposare qualche buona causa per giunta molto sexy, dal Darfur al Tibet del fascinoso Dalai Lama. Non abbiamo fiatato quando a dirigere la commissione per la difesa dei diritti umani dell'Onu era la Libia di Gheddafi, che i diritti umani li faceva a pezzettini. Abbiamo considerato ancora una cosa seria le Nazioni Unite anche quando a capo della commissione per la difesa dei diritti delle donne dell'inutile Onu è stata messa una rappresentante dell'Iran khomeinista, dove le donne non sottomesse vengono massacrate e lapidate. E adesso dovremmo versare democratiche lacrime umanitarie per le sorti della Fratellanza musulmana in Egitto, che voleva imporre la tirannia dell'integralismo islamico, abolire ogni libertà, fare a pezzi ogni diritto, dare una mano al terrorismo e alla violenza fondamentalista? La Cina ha chiuso nei suoi forzieri una grande fetta del debito americano, l'Occidente ha davanti a sé prospettive luminose di affari vantaggiosissimi e noi cosa dovremmo fare, dovremmo forse commuoverci, e invocare masochisticamente l'universalità dei diritti umani fondamentali, quando il premio Nobel della letteratura cinese Mo Yan denuncia nel suo romanzo Le rane (tradotto in Italia da Einaudi) l'orrore degli aborti selettivi di Stato, la spietata dittatura del Partito sui corpi delle donne e sulle bambine che non devono nascere per suprema e insindacabile disposizione dell'autorità politica? I diritti umani violati, come si è visto di recente anche in Italia, diventano materia incandescente di lacerazioni, e pretesto per sfoggiare le più virtuose indignazioni, solo se hanno una ricaduta nella polemica politica interna. Le ombre del Kazakhstan hanno conquistato le prime pagine dei giornali solo quando i partiti hanno voluto farsi la guerra dopo la vergogna dell'espulsione di una donna e di una bambina fortemente voluta dall'ambasciatore kazako a Roma. Ma poi il sipario si è chiuso: i paladini dei diritti umani universali hanno ritenuto chiusa la faccenda, i riflettori si sono spenti, nessuno si chiede più quale orribile dittatura stia schiacciando il Kazakhstan, le sorti dei detenuti politici sono sprofondate nella nebbia del disinteresse.
Forse mai come oggi si sente il morso dell'ipocrisia delle democrazie occidentali e delle loro volatili opinioni pubbliche, senza distinzione alcuna tra destra e sinistra, conservatori e progressisti. Siamo ipersensibili per ciò che accade in casa nostra, e invece totalmente insensibili quando qualche nefandezza viene compiuta di là dalle colonne d'Ercole delle democrazie conosciute. L'Occidente è nel pieno di quella sindrome autopenitenziale descritta da Pascal Bruckner: tutto ciò che accade nel suo perimetro è oggetto di un esame autocritico meticoloso e severo, tutto ciò che si consuma al di fuori è oggetto di comprensione indulgente. Siamo meritoriamente molto attenti quando il sia pur minimo diritto degli omosessuali viene messo in discussione nelle nostre metropoli, ma non ce ne importa nulla se gli omosessuali sono perseguitati in tutto il mondo mediorientale e quelli palestinesi devono rifugiarsi nel detestato Israele per sfuggire al linciaggio dei fondamentalisti al potere a Gaza. Denunciamo con civile veemenza ogni limitazione alla libertà religiosa e ogni oltraggio a chi venera un Dio diverso da quello della tradizione cattolica apostolica romana, ma non ci turba apprendere ogni giorno di qualche cristiano trucidato persino nella «moderatissima» Arabia Saudita, dove è considerato «blasfemia» anche il semplice possesso di un rosario nascosto in qualche cassetto. Discettiamo sul «corpo delle donne», di cui si deplorano gli inammissibili maltrattamenti persino nella kermesse di Miss Italia, ma facciamo finta che non esistano le ragazze del Pakistan massacrate solo perché vogliono studiare, quelle dell'Iran linciate se passeggiano per strada con un uomo o se denunciano lo stupro di bambine dodicenni costrette a darsi spose con matrimonio combinato a orrendi uomini anziani scelti per loro dalle famiglie complici di questi crimini. Ma oggi l'ipocrisia raggiunge vette finora mai scalate: quello che noi non sappiamo più ottenere con la voce dell'opinione pubblica, con i mezzi di influenza di cui disponiamo, speriamo che sia ottenuto con la forza dei cingolati, come sta accadendo per i fatti che insanguinano l'Egitto. Siamo diventati come i turchi «occidentalizzati», cosmopoliti ed europeizzanti di Istanbul che, come racconta Orhan Pamuk nel suo romanzo Neve, tiravano un sospiro di sollievo ogni volta che un golpe militare riusciva a tenere a bada le spinte estremiste e fanatiche del fondamentalismo islamista: meglio la pace ottenuta con la repressione delle piazze, le esecuzioni, le torture, il dissenso relegato in carcere che il dispotismo mostruoso e totalitario dei sacerdoti delle decapitazioni rituali. E così rimpiangiamo Mubarak, che certo disponeva di una polizia dedita all'arte della tortura ma almeno teneva a bada, in carceri inaccessibili, la dirigenza dei Fratelli musulmani e contribuiva al mantenimento dell'«ordine». E così abbiamo nostalgia degli aguzzini spietati di Gheddafi, un dittatore pagliaccio alla Ubu Roi che però, una volta dismessi gli abiti del pericoloso terrorista internazionale con le mani insanguinate dall'eccidio di Lockerbie, era diventato un gendarme dell'ordine mondiale: e le nostre maledizioni vanno a quegli snob della Rive Gauche come Bernard-Henri Lévy che hanno turbato le esibizioni (e le esecuzioni) dell'eccentrico tiranno con le loro irresponsabili bombe umanitarie. E così, l'opinione pubblica occidentale è la prima, in anticipo su governi titubanti fino allo sfinimento, a non sapere cosa augurarsi per la Siria, come si vede anche in questi giorni: mantenere l'ordine con il macellaio seriale Assad, che però almeno conserva una patina di laicità a Damasco, oppure abbracciare la causa dei ribelli, abbondantemente infiltrati da Al Qaeda, le cui schiere sono sature di integralismo, odio religioso, fanatismo cieco?
E poi, ci diciamo ipocritamente noi portabandiera dei «valori universali» della democrazia e dei diritti umani fondamentali, cosa possiamo farci se, una volta acquisite le procedure delle elezioni democratiche, i popoli ne fanno sempre così cattivo uso e scelgono gli islamisti in Tunisia, Morsi in Egitto, Hamas a Gaza, gli antisemiti fondamentalisti a Teheran, e così via? In Algeria, nel 1991, il nodo fu sciolto con paradossale determinazione: per salvare la democrazia dai nemici integralisti che avevano democraticamente vinto, si decise di abolirla. Il risultato è stato una guerra civile cruenta. Il terrore. Ma per l'Occidente c'era forse soluzione migliore? Mai il divario tra i princìpi proclamati e la pratica del realismo è stato così stridente. O meglio: mai questo divario è stato tanto condiviso dall'opinione pubblica. Ai tempi della guerra fredda il «mondo libero» scese più volte a patti con la propria coscienza democratica. Quanti gorilla, quanti colpi di Stato, quanti dittatori usati per arginare la minaccia comunista. «Sono dei figli di puttana, ma sono i "nostri" figli di puttana», era la formula di rito quando si trattava di sostenere qualche feroce e impresentabile giunta golpista in America Latina e non solo. E in omaggio alla Realpolitik, gli Stati Uniti si sono sempre rifiutati di soccorrere chi, nel mondo comunista, era destinato a soccombere sotto l'avanzare dei carri armati, da Budapest nel 1956 a Praga nel 1968. Ma almeno gli aiuti alle democrazie che fronteggiavano la minaccia sovietica non lesinavano impegni anche finanziariamente onerosi, dal Piano Marshall in poi. Oggi questo ultimo velo di ipocrisia è stato strappato. Il pacifismo occidentale si è scagliato contro l'interventismo di Bush, bollando come velleitario e avventuroso il suo progetto di «esportare la democrazia» attraverso la forza delle armi. Ma la fine dell'interventismo democratico, che dal Kosovo è transitato sino all'Afghanistan e l'Iraq, ha rappresentato anche la fine di ogni «interventismo» purchessia, squalificato come idealismo da anime belle, se non addirittura come sabotaggio di un ordine rassicurante che certo ha come prezzo la morte per asfissia di ogni forma di vita democratica, ma almeno garantisce che non si sprofondi nell'inferno: il trionfo dell'ipocrisia, appunto.
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