mercoledì 2 ottobre 2013

GLI ELETTI SI "RESPONSABILIZZANO", E NOI ELETTORI TUTTI NOVELLI "CICCIO TUMEO"


Cito spesso in questi giorni il libro di Orsina sul berlusconismo perché trovo in esso molte pagine chiarificatrici di certe dinamiche italiane. Principale tra di esse, la vena che lui definisce "ortopedica e pedagogica" della sedicente classe dirigente italiana, che ha sempre ritenuto che il popolo, il cd. paese reale, andasse "raddrizzato" (intervento ortopedico) ed educato (intervento pedagogico) per avvicinarlo al paese legale. 
Come sono andate e stiano andando le cose, lo si vede. L'Italia, dall'unità a oggi, è assolutamente cresciuta da un punto di vista materiale (benessere diffuso, ancorché ora in contrazione) , culturale ( scolarizzazione pressoché universale, aumento della popolazione liceale e universitaria, anche se quantità non vuol dire sempre qualità...) e sociale ( assistenza sanitaria e previdenziale generale, anche qui con livelli qualitativi ondivaghi). 
Da un punto di vista "civico", intendendo per esso il rapporto di fiducia e rispetto reciproco tra Stato e cittadini, il consenso generale per le regole e quindi la prevalente osservanza delle stesse, le cose stanno molto più indietro. 
E, sottolinea bene Orsina, le responsabilità sono di entrambe le parti. Le cose calate dall'alto non sono il sistema migliore per infondere  "fiducia e rispetto", è fondamentale un processo di persuasione e convinzione, senza mai perdere di vista l'ascolto della propria gente. 
Questa lunga premessa per introdurre l'articolo di fondo di Gianni Riotta, sulla Stampa, che se la prende con le destre populiste americane e italiane, colpevoli entrambe di "irresponsabilità", e auspica l'affermazione della parte moderata e responsabile di quella parte politica che comunque rappresenta almeno un terzo dell'elettorato. Peraltro, la stessa cosa confida avvenga sull'altro fronte. E a questo punto mi pare evidente che siamo alle solite : cercare di correggere, ortopedicamente e pedagogicamente, attraverso in questo caso la chirurgia parlamentare, l'esito elettorale.

 Ad OGGI un centro destra , conservatore ma moderno e non populista  non prende voti. Che tra l'altro, in concreto che vorrebbe dire ? eliminati gli aggettivi positivi e negativi, resta che un elettorato di centro destra è orientato verso uno Stato leggero, non intrusivo, è mal disposto a sacrificare le proprie  libertà in nome dell'uguaglianza ( dato per scontato che si tratta di due valori non rinunciabili, e proprio sull'equilibrio tra di essi che si gioca gran parte della partita, delle scelte di uno Stato) . Quindi gente che continuerà a battersi per meno tasse e meno spesa pubblica. Esattamente come i repubblicani americani.
Non è certo il governo Monti il paradigma per un elettorato di centro destra, e infatti alle elezioni si è visto.
Poi certo, se non c'è nessuna offerta politica in quella direzione, magari si finisce per votare DC, turandosi il naso.
Credo che lo stesso discorso valga per il PD. L'aspetto garantista, libertario e liberal (senza "e", che mi pare che di liberale ci sia molto poco da quelle parti) è minoritario, e si è visto con le primarie dello scorso anno, dove Bersani vinse nettamente - per poi non vincere le elezioni... - contro un Renzi che pure registrò numeri importanti in voti e in percentuali.
Insomma, come al solito in Italia si forma un elite che immagina il mondo che vorrebbe ma che non c'è. Questo elettorato illuminato, riformista in un'ottica di compromessi virtuosi tra mercato e tutele , tra libertà e uguaglianza, tra crescita e sostegno sociale, di fatto finora non si è visto. Quando le gente è stata chiamata a votare, finora ha privilegiato, per lo più, la dinamica Berlusconi e Anti. Che si equivale.
Può non piacere, però finora è stato così. Quando Berlusconi non era candidato, NESSUNO si mostrò in grado di avere la forza di prenderne il posto. Il PDL senza di lui era quotato al di sotto del 15%.
Per questo, quando ha deciso di tornare in campo, si sono ricompattati con lui, che li ha riportati al 25. Adesso che sono rientrati, grazie a lui, in Parlamento, disegnano scenari diversi, ma la prospettiva di seguire la sorte di Fini e PLI è molto alta. 

Lo ripeterò fino alla noia : nessuno scandalo nel cambiare idea, o nell'accorgersi che è il proprio partito ad averla cambiata (accade anche questo) . Per questo ci sono gli abbandoni e anche le scissioni. Quello che non mi piace, proprio umanamente parlando, è che si mantenga un posto dove ben si sa non saremmo senza la benedizione di chi intendiamo lasciare.
So perfettamente che la legge costituzionale lo consente, ma resto dell'idea che la coerenza e l'onestà, intellettuale e anche pratica, siano virtù, e quanto si vede non risponde a questi criteri.
Non si tratta di essere traditori o no, si tratta di essere persone dalla schiena dritta.
Questo modo di fare mi ricorda, mutatis mutandis, la scena del film Il Gattopardo dove l'uomo di fiducia del Principe di Salina, tale Ciccio Messere, si sfoga con il suo signore per l'esito del plebiscito per l'adesione al regno d'Italia. Il risultato letto dal sindaco di Sedara (un grande Paolo Stoppa) rappresentava un voto unanime all'unione.
Ciccio Tumeo sapeva che quel risultato almeno per un voto, anche solo uno, era FALSO, perché lui aveva votato NO, per fedeltà ai Borboni di cui si sentiva beneficiario.
Ecco, io credo che gli elettori si sentano così quando assistono a queste capriole parlamentari.
Alfano, Quagliarello, Lupi, sembrano degnissime persone, e non hanno l'atteggiamento dei finiani al momento della diaspora. Pensano in coscienza che sia sbagliata la scelta della crisi di governo. Perfetto. Se a questa loro coraggiosa presa di posizione accompagnassero le dimissioni da ogni incarico, compreso quello di parlamentare, avrebbero tutto il mio plauso e sarebbero da additare ad esempio alle future generazioni. Perché loro in Parlamento, e questo NESSUNO lo potrà smentire, ci stanno grazie e solo a Berlusconi. Chi impediva ad Alfano e company di formare un partito per conto loro nel 2012 ? Avevano tutto il tempo. Si parlava di primarie del PDL, quando Berlusconi bloccò tutto. Perché non andarsene allora ? E' questo che non mi torna. 
Che poi il bene dell'Italia sia nella sopravvivenza dle governo Letta, bè posso solo ridere per non piangere. 
Negli USA è scattato lo shutdown per lo scontro tra Repubblicani e Obama, e il 17 ottobre la situazione si potrebbe ancora aggravare.
Eppure non viene evocata la fine del mondo.
Ma noi, si sa, siamo gli inventori del melodramma. 
Per chi vuole, di seguito l'articolo di Riotta


“Alla ricerca di una cultura politica” di Gianni Riotta da La Stampa del 2.10.2013




L’impossibilità di governare nel XXI secolo, che l’economista Moises Naim chiama «Fine del Potere», attanaglia in queste ore la destra in Italia e negli Stati Uniti. A Roma si consuma l’ultimo atto della storia politica di Silvio Berlusconi, che per la prima volta vede parte dei suoi dirgli di no, e continuare l’esperienza del governo Letta.
A Washington lo «shutdown», il blocco della spesa federale innescato dall’intransigenza dei deputati repubblicani di destra legati al movimento populista Tea Party, paralizza la presidenza Obama e ridicolizza l’ultima superpotenza.
Le cronache si soffermano sulla tattica delle due vicende. Berlusconi che prova a salvarsi dalle conseguenze della condanna per frode fiscale, il suo partito che prova a non restare sepolto sotto le macerie del fondatore, mentre nel Pd il premier Letta e il sindaco di Firenze Matteo Renzi provano a trovare un equilibrio, per non fare la fine dei kamikaze, come spesso la sinistra nel recente passato. In America Obama tenta di ribaltare sull’opposizione la colpa del clamoroso shutdown e magari – nei sondaggi i cittadini si dicono disgustati dal caos – ottenere la maggioranza alla Camera nelle elezioni di midterm 2014, mentre i radicali repubblicani si incaponiscono, a costo di isolarsi, nel bocciare la detestata riforma sanitaria del Presidente.
Le due vicende avranno un esito prossimo. Vedremo se, e quanto a lungo, Berlusconi prolungherà la sua avventura, vedremo se, e come, Obama troverà un filo negoziale con gli ex raziocinanti repubblicani del Gop. Ma entrambe le storie, nella loro curiosa coincidenza temporale, confermano la carenza di cultura politica del nostro tempo, profonda, a destra come a sinistra, in Italia come in America, anche quando «Silvio» e «Shutdown» non affolleranno più prime pagine e siti web.
Il centro destra italiano sembra solo adesso, in ritardo e in modo convulso, identificare la necessità di una cultura politica europea, moderna, tecnocratica, fiscalmente seria e senza un solo leader carismatico che decide rinchiuso in una stanza. I sondaggi, da Diamanti a SWG, confermano che anche quando «Silvio» non guiderà più Forza Italia, da un terzo a un quarto degli italiani, un intero blocco sociale, resteranno, secondo la definizione di Gramsci, ad egemonia di destra. Chi li rappresenterà in un Paese senza sviluppo da una generazione, come, verso quali riforme di un’economia che oggi perde 50 aziende ogni giorno, con disoccupazione e spesa in crescita? Non avere fatto le riforme necessarie, ignorando la cultura di governo moderna dei conservatori, sarà la colpa che i libri di storia imputeranno a Berlusconi, prima ancora dei bunga bunga.
Chiusi da mesi nel bunker della paranoia, tra sicofanti e mestatori, neppure gli uomini migliori della destra hanno interloquito con la rivoluzione in corso nella Chiesa, dal Vaticano di Papa Francesco, a Comunione e Liberazione di don Carron. Hanno sottovalutato l’intervista di Bergoglio a Civiltà Cattolica o la biografia di don Giussani scritta da Alberto Savorana, toni nuovi in un mondo cattolico nuovo. Una Chiesa meno attenta al gioco politico del potere, concentrata su valori e persone, incurante degli intrighi, appassionata al dialogo. Chiunque guiderà in Italia il nuovo centro destra scoprirà di poter contare su questa svolta cattolica, senza detestarla o ignorarla come capita oggi.
La difficoltà maggiore per gli eredi di Berlusconi non sarà infatti raccattare i voti in Parlamento per i gruppi, riorganizzare il partito, impedire la diaspora politica dei troppi leaderini, azzittire i populisti, tutti compiti già gravosi. Sarà rielaborare una cultura unitaria capace di modernizzare l’Italia, senza che – come accade tra i repubblicani americani – la polemica rabbiosa e antistatale degeneri in astiosa, perenne, rissa.
Il centrosinistra, anche se riuscisse dopo vent’anni a liberarsi di Berlusconi e ad avere davanti a sé una destra moderna, è chiamato a una rifondazione culturale non meno impegnativa. Il «NO» inarticolato al berlusconismo è costato quattro elezioni politiche e una generazione di ritardo, con le due vittorie elettorali di Prodi 1996 e 2006 buttate all’aria, ma ha garantito almeno una specie di mastice per tenere insieme i pezzi di un’identità malformata. Ora serve una cultura, vera. Il Partito democratico «Post Berlusconi» sarà partito di innovazione, start up, ricerca, nuove economie, laboratori, mercati globali, o si lascerà andare al rimpianto «della politica industriale dell’Iri che garantì il miracolo economico degli Anni Sessanta, molto meglio del mercato» come, con nostalgia affettuosa ma scarsa attenzione alla realtà, è stato affermato a un convegno Pd di questi giorni?
Uscito di scena «Silvio», il Pd cercherà riforme economiche adatte al mondo di oggi, tecnologia, servizi, difesa della manifattura davanti ai competitors internazionali, non a colpi di sussidi e burocrazie? O ricadrà in un sogno «statalista e centralizzato, dirigista» che sarà subito bocciato dalla realtà visto che siamo nel secondo decennio del nuovo secolo e non a metà del Novecento? Sarà un Pd garantista, libertario e liberale, capace di rintuzzare la voglia di forca della sinistra estrema, quei «processi e condanne di piazza» invocati da Beppe Grillo e dai suoi fedeli nei media?
Quando la ribellione libertaria, antistatalista, populista e ruspante dei Tea Party ha occupato il rispettabile, tradizionale, GOP repubblicano, il partito ha visto la propria efficacia politica scemare. Senza la destra radicale oggi controllerebbe anche il Senato, le intemperanze alle primarie son costate seggi cruciali. I democratici, per anni battuti alla Casa Bianca perché legati a una coalizione perdente, vecchi sindacati, intellettuali, minoranze, sono maggioranza nazionale perché parlano ai ceti nuovi, tecnologici, urbani, multirazziali, ai lavoratori old e new economy, ai cattolici ispanici, che esprimono quella cultura gioiosa, familiare, inclusiva cara al Papa.
Seguiamo dunque con attenzione e passione gli esiti, a tratti anche tragicomici, dei due «Shutdown», «Federale» e «Silvio». Ma il vero campo di battaglia resta la rivoluzione culturale profonda che attende la nuova politica. A sorpresa, gli sconfitti di oggi saranno i vincitori di domani se, con più coraggio e diligenza, si daranno il sapere giusto.
 

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