Il caso STAMINA l'ho seguito distrattamente, lo confesso ( già mi si accusa di "tuttologia"...) . Ho letto nel tempo i titoli, e quindi il semaforo rosso del Ministero, poi l'intervento della solita Magistratura a definire non obiettiva la pronuncia degli esperti ministeriali, ora le conclusioni di nuovi scienziati che ribadiscono, aggravandola, la bocciatura.
La materia è delicatissima, perché ha a che fare con la Speranza di persone che confidano sempre nel miracolo per salvare i propri cari. Nessuno tra le persone adulte credo abbia dimenticato il metodo Di Bella, ma è solo un esempio.
Sfogliando i quotididiani mi sono imbattuto nella riflessione di Giovanni Orsina, storico che stimo, e quindi mi sono soffermato.
Ho trovato, come quasi sempre mi accade con l'autore, considerazioni assolutamente valide e condivisibili, ancorché amare.
Da Leggere
Lo specchio di un paese fragile
Il caso Stamina – osservato qui da un punto di vista non
tecnico ma, in senso lato, politico – pare contenere in sé svariati
elementi indicativi dello stato di avanzato disfacimento della nostra
vita pubblica.
Mostra per l’ennesima volta quanta ragione avesse Ennio Flaiano quando scriveva, sconsolato, che in Italia, «paese che amo, non esiste semplicemente la verità» – che se «paesi molto più piccoli e importanti del nostro hanno una loro verità, noi ne abbiamo infinite versioni». Anzi: mostra che da quando Flaiano l’ha formulata quarant’anni fa, questa riflessione è diventata, ahinoi, ancor più vera.
La vicenda Stamina può essere considerata emblematica. In primo luogo, del modo caotico, urlato e prepotente – e in definitiva autolesionistico – nel quale ormai da decenni, ma da ultimo sempre più spesso, le esigenze di questo o quel gruppo vengono imposte all’attenzione dell’opinione pubblica e delle istituzioni. Certo, qui stiamo parlando di un caso limite, di persone e famiglie disperate che nel metodo vedono la loro unica e ultima possibilità di salvezza. Quelle persone e famiglie, nondimeno, hanno contribuito anch’esse allo sconcerto crescente di un’Italia preoccupata, avvilita e in crisi d’autostima più del solito – un’Italia che ogni mattina si ritrova in piazza un ricatto morale in più: un nuovo diritto sacrosanto, una nuova esigenza imprescindibile, una nuova esasperazione incontenibile. E in questo caso, per altro, un ricatto fondato sulla malattia, la disabilità e la morte. Perciò moralmente irresistibile, forse più scusabile, ma anche, nella sua violenza, meno tollerabile – come ha ben scritto l’altroieri Franco Bomprezzi sul blog «inVisibili» del Corriere della Sera, che da tempo riflette con acume e pacatezza proprio sul problema della «visibilità» dei disabili, dei loro bisogni e dei loro diritti.
Il secondo aspetto della nostra vita pubblica che la vicenda di Stamina evidenzia – tutt’altro che disconnesso dal primo, per altro – è la profondissima crisi di fiducia nei confronti non soltanto delle istituzioni ma pure del sapere tecnico, soprattutto (non soltanto) quando anch’esso proviene dall’interno delle istituzioni. Alla luce di questa diffidenza radicata la lentezza e prudenza del ministero, invece di apparire il frutto necessario della complessità del caso, dell’impossibilità di comprimere i tempi di sperimentazione, dell’esigenza sacrosanta di rispettare protocolli internazionali consolidati, sono immediatamente diventate agli occhi di una larga parte del Paese una conseguenza nel migliore dei casi della sordità e del disinteresse del «Palazzo», nel peggiore della sua subordinazione a interessi occulti e inconfessabili. Là dove invece, stando alle informazioni assai negative che sono uscite sul metodo Stamina da ultimo, ma che nelle istituzioni a quel che sembra erano note da mesi, pare lecito concludere piuttosto che il «Palazzo», se in questo caso ha sbagliato, lo ha fatto non perché ha dato troppo poco ascolto alla «gente», ma al contrario perché gliene ha dato fin troppo. Come di consueto, inoltre, la diffidenza è stata potentemente alimentata dai media – nell’occasione, da un giornalismo televisivo d’inchiesta superficiale e non equilibrato.
La vicenda Stamina è emblematica dello stato della nostra vita pubblica, infine, perché anche in questo caso il percorso è stato complicato dall’intervento della magistratura. Secondo la quale la commissione di esperti nominata dal ministero, avendo i suoi componenti pubblicamente criticato il metodo, non dava sufficienti garanzie di imparzialità. Il tribunale amministrativo ha argomentato la sua decisione sostenendo che la valutazione della commissione dovesse essere al di sopra di ogni sospetto, ossia pretendendo un sovrappiù di fiducia. Nell’immediato, però, ha contribuito piuttosto ad alimentare la diffidenza verso le istituzioni pubbliche e i tecnici che si mettono al loro servizio. Tanto più che, considerate le molte polemiche che hanno circondato il caso Stamina, non solo in Italia, e l’orientamento prevalente degli studiosi, non sarà facile trovare degli esperti di rilievo che non si siano espressi contro il metodo. E tanto più che siamo pur sempre nel Paese dell’assurda condanna inflitta agli scienziati della commissione grandi rischi per non aver previsto il terremoto dell’Aquila.
Perfino nella Penisola, col tempo e un po’ di fortuna, le molte verità di Flaiano talvolta riescono a convergere in una verità unica. Sembra che sul caso Stamina questo traguardo non sia poi troppo lontano, e speriamo che ci si arrivi quanto prima. L’intera vicenda resta però esemplare della fragilità delle nostre istituzioni e della diffidenza che le circonda. Diffidenza non del tutto ingiustificata, certo. Eccessiva, però. E controproducente.
Mostra per l’ennesima volta quanta ragione avesse Ennio Flaiano quando scriveva, sconsolato, che in Italia, «paese che amo, non esiste semplicemente la verità» – che se «paesi molto più piccoli e importanti del nostro hanno una loro verità, noi ne abbiamo infinite versioni». Anzi: mostra che da quando Flaiano l’ha formulata quarant’anni fa, questa riflessione è diventata, ahinoi, ancor più vera.
La vicenda Stamina può essere considerata emblematica. In primo luogo, del modo caotico, urlato e prepotente – e in definitiva autolesionistico – nel quale ormai da decenni, ma da ultimo sempre più spesso, le esigenze di questo o quel gruppo vengono imposte all’attenzione dell’opinione pubblica e delle istituzioni. Certo, qui stiamo parlando di un caso limite, di persone e famiglie disperate che nel metodo vedono la loro unica e ultima possibilità di salvezza. Quelle persone e famiglie, nondimeno, hanno contribuito anch’esse allo sconcerto crescente di un’Italia preoccupata, avvilita e in crisi d’autostima più del solito – un’Italia che ogni mattina si ritrova in piazza un ricatto morale in più: un nuovo diritto sacrosanto, una nuova esigenza imprescindibile, una nuova esasperazione incontenibile. E in questo caso, per altro, un ricatto fondato sulla malattia, la disabilità e la morte. Perciò moralmente irresistibile, forse più scusabile, ma anche, nella sua violenza, meno tollerabile – come ha ben scritto l’altroieri Franco Bomprezzi sul blog «inVisibili» del Corriere della Sera, che da tempo riflette con acume e pacatezza proprio sul problema della «visibilità» dei disabili, dei loro bisogni e dei loro diritti.
Il secondo aspetto della nostra vita pubblica che la vicenda di Stamina evidenzia – tutt’altro che disconnesso dal primo, per altro – è la profondissima crisi di fiducia nei confronti non soltanto delle istituzioni ma pure del sapere tecnico, soprattutto (non soltanto) quando anch’esso proviene dall’interno delle istituzioni. Alla luce di questa diffidenza radicata la lentezza e prudenza del ministero, invece di apparire il frutto necessario della complessità del caso, dell’impossibilità di comprimere i tempi di sperimentazione, dell’esigenza sacrosanta di rispettare protocolli internazionali consolidati, sono immediatamente diventate agli occhi di una larga parte del Paese una conseguenza nel migliore dei casi della sordità e del disinteresse del «Palazzo», nel peggiore della sua subordinazione a interessi occulti e inconfessabili. Là dove invece, stando alle informazioni assai negative che sono uscite sul metodo Stamina da ultimo, ma che nelle istituzioni a quel che sembra erano note da mesi, pare lecito concludere piuttosto che il «Palazzo», se in questo caso ha sbagliato, lo ha fatto non perché ha dato troppo poco ascolto alla «gente», ma al contrario perché gliene ha dato fin troppo. Come di consueto, inoltre, la diffidenza è stata potentemente alimentata dai media – nell’occasione, da un giornalismo televisivo d’inchiesta superficiale e non equilibrato.
La vicenda Stamina è emblematica dello stato della nostra vita pubblica, infine, perché anche in questo caso il percorso è stato complicato dall’intervento della magistratura. Secondo la quale la commissione di esperti nominata dal ministero, avendo i suoi componenti pubblicamente criticato il metodo, non dava sufficienti garanzie di imparzialità. Il tribunale amministrativo ha argomentato la sua decisione sostenendo che la valutazione della commissione dovesse essere al di sopra di ogni sospetto, ossia pretendendo un sovrappiù di fiducia. Nell’immediato, però, ha contribuito piuttosto ad alimentare la diffidenza verso le istituzioni pubbliche e i tecnici che si mettono al loro servizio. Tanto più che, considerate le molte polemiche che hanno circondato il caso Stamina, non solo in Italia, e l’orientamento prevalente degli studiosi, non sarà facile trovare degli esperti di rilievo che non si siano espressi contro il metodo. E tanto più che siamo pur sempre nel Paese dell’assurda condanna inflitta agli scienziati della commissione grandi rischi per non aver previsto il terremoto dell’Aquila.
Perfino nella Penisola, col tempo e un po’ di fortuna, le molte verità di Flaiano talvolta riescono a convergere in una verità unica. Sembra che sul caso Stamina questo traguardo non sia poi troppo lontano, e speriamo che ci si arrivi quanto prima. L’intera vicenda resta però esemplare della fragilità delle nostre istituzioni e della diffidenza che le circonda. Diffidenza non del tutto ingiustificata, certo. Eccessiva, però. E controproducente.
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