Altro scappellotto (ceffone ? ) di Alesina e Giavazzi al governo Letta, con monito al renzismo di voga di non incorrere nell'errore degli ultimi governi di far quadrare i conti con il prelievo fiscale anziché con la riduzione della spesa e del debito pubblico. Il fatto che l'Europa, e in particolare la Germania che ne è il capotreno, possano allentare il vincolo di deficit del 3% come da molti auspicato solo perché lo spread è giù e i conti , dal punto di vista del Fiscal Compact in ordine (apparentemente), è per i due importanti economisti illusorio senza un serio piano di abbattimento fiscale, di tagli e dismissioni precisamente indicate che accompagnino una simile richiesta. Altri paesi (GB e Irlanda), ricordano i due bocconiani, sono riusciti a tagliare seriamente la spesa pubblica (la GB di oltre 16 miliardi di euro, da noi non siamo riusciti a tagliarne 3-4 per evitare l'aumento dell'IVA ! ) e oggi hanno situazioni migliori di Francia e Italia.
Pensare di andare a Bruxelles (che telefona a Berlino) "solo" con lo spread sotto i 200 punti e il deficit al 3% quando il debito pubblico vale il 130% del PIL, la spesa pubblica complessiva non scende (anzi) e la tassazione è soffocante e per le imprese mortale, ci porterebbe ad un garbato ma netto "nein" e avrebbero ragione.
E' valso per Monti ieri, per Letta oggi e vedrete che non cambierà con le battute di Renzi domani.
Buona Lettura
Limiti europei, impegni italiani
La soluzione 3 per cento
Nel triennio 2011-2013 il Regno Unito ha ridotto la spesa pubblica di 13,8 miliardi di sterline (16,6 miliardi di euro) e aumentato le imposte di solo un miliardo (1,2 in euro). Con quali risultati? La disoccupazione ha cominciato a scendere: 7,6% nel novembre 2013, il valore più basso da tre anni in qua. E non perché lavoratori scoraggiati abbiano smesso di cercare lavoro, come succede in parte anche negli Stati Uniti: è cresciuto sia il numero di coloro che partecipano al mercato del lavoro (dal 70 al 72% nel periodo) sia il numero degli occupati: un milione in più. E ciò nonostante il numero dei dipendenti pubblici sia sceso, sempre in un triennio, di circa 400.000 unità, dimostrazione che se il mercato del lavoro funziona non necessariamente una riduzione del numero di dipendenti pubblici fa crescere la disoccupazione. E la spiegazione non può essere che il Regno Unito è fuori dall’euro e quindi ha potuto svalutare (del 15% circa): l’Irlanda è parte dell’euro e non ha potuto farlo, e ciò nonostante - grazie ad un aggiustamento attuato per lo più (76%) tagliando le spese - oggi cresce a una velocità doppia della media dell’Unione monetaria.
Negli stessi anni i governi di Parigi, in particolare quello di Hollande, hanno cercato di correggere i conti pubblici operando per lo più tramite aumenti della pressione fiscale: il 70% dell’aggiustamento francese nel triennio 2011-13 è stato dovuto ad aumenti di imposte. Il risultato? La disoccupazione continua a salire: dal 9,6% nel 2011 all’11% oggi. E mentre nel resto dell’area euro (persino in Grecia) l’industria manifatturiera dà segni di riprendersi, in dicembre l’indice Pmi francese (che riflette le attese dei responsabili acquisti delle imprese nel settore manifatturiero) ha raggiunto il livello più basso da sette anni a questa parte.
È con una comprensibile soddisfazione che il primo ministro inglese, David Cameron, ha scritto il 2 gennaio sul Times: «Abbiamo ripreso a crescere grazie ad una politica economica che ha voltato le spalle a chi voleva più spesa pubblica e più debito. Per convincersi di quanto avessero torto basta confrontare ciò che sta succedendo nel Regno Unito con quanto accade nei Paesi i cui governi hanno ceduto all’illusione della spesa e del debito». E in quelli, aggiungeremmo noi, che hanno aggiustato i conti solo aumentando le imposte, come Italia e Francia.
Lo stesso giorno, il 2 gennaio, Matteo Renzi diceva, in un’intervista al Fatto Quotidiano: «Se all’Europa proponi un deciso cambio delle regole del gioco, a partire dalle riforme costituzionali, con un risparmio sui costi della politica da un miliardo di euro che non è solo simbolico, un Jobs Act capace di creare interesse negli investitori internazionali, fai vedere che riparti da scuola, cultura e sociale, allora in Europa ti applaudono anche se sfori il 3 per cento». Bisogna essere molto più precisi, altrimenti anche questa rischia di rivelarsi una pericolosa illusione a cui nessuno a Bruxelles crederà. Siamo stati (crediamo) i primi a proporre, il 17 maggio su questo giornale, una strategia di politica economica che contempli un nuovo negoziato con Bruxelles e un temporaneo superamento del vincolo del 3% sul deficit dei conti pubblici. Scrivevamo che anziché rincorrere il 3% con aumenti di tasse (come avviene da un ventennio, e continua tuttora con la legge di Stabilità di due settimane fa) il governo avrebbe dovuto proporre a Bruxelles una riduzione immediata delle imposte sul lavoro di almeno 23 miliardi (quanto necessario per portare i contributi a carico delle imprese al livello tedesco), accompagnata da tagli corrispondenti, ma graduali, della spesa, e riforme coraggiose, soprattutto del mercato del lavoro, da attuare nell’arco di un triennio. Il deficit supererebbe per un paio d’anni il 3%. Torneremmo sotto la sorveglianza europea, una ragione in più per garantire che tagli e riforme vengano davvero attuati. Riducendo i sussidi improduttivi (che valgono, fra incentivi diretti e agevolazioni fiscali qualche decina di miliardi) e avviando un piano di liberalizzazioni, si darebbe il segnale che la priorità è la crescita. E, parallelamente, le dismissioni di immobili e le privatizzazioni di cui tanto si parla, ma solo se ne parla.
Per farci approvare dall’Europa un piano simile dobbiamo però presentarci a Bruxelles dopo aver approvato i tagli di spesa e con obiettivi numerici, scadenze temporali e meccanismi istituzionali che ci obblighino a farle davvero queste riforme di cui tutti parlano ma sempre attenti a non scontentare nessuno. Il problema è che finora questo non lo abbiamo saputo fare. L’irritante vaghezza e i continui rinvii di Letta e Saccomanni lo confermano. La discesa dello spread al di sotto dei 200 punti è magra soddisfazione per un Paese che dal 2007 ha perso quasi il 10 per cento di reddito. Forse la stangata fiscale del governo Monti e, soprattutto, le rassicurazioni della Bce, sono servite a calmare temporaneamente i mercati riguardo a un eventuale ripudio del debito. Ma il 133 per cento di rapporto debito su Pil, anche con tassi relativamente bassi (per ora), rimane un fardello che uccide la crescita. Dichiarare vittoria perché lo spread e sceso è un altro pessimo esempio della nostra tendenza ad adagiarci non appena ci si allontana di qualche passo dal baratro.
La cattiva abitudine a rinviare sempre tutto, a parte le maggiori imposte, è la ragione della nostra scarsa credibilità in Europa. Ad esempio, dopo l’ingresso nell’euro i tassi di interesse sul nostro debito sono crollati: il debito ci costava l’11,5% del prodotto interno lordo nel 1996, questo costo è sceso sotto il 6% dopo l’ingresso nella moneta unica. Avremmo dovuto approfittarne per ridurre il peso del debito, tagliando la spesa. Non lo abbiamo fatto e abbiamo sprecato un’occasione d’oro. Invece di ridursi, la spesa pubblica al netto degli interessi è salita di più di tre punti di Pil (dal 39,6% nel 2000 al 43% nel 2003). Questi erano anni in cui l’economia (cioè il denominatore del rapporto spesa/Pil) cresceva: ma il numeratore saliva ancor più rapidamente. Quando la crescita si è fermata, il rapporto spesa su Pil è continuato ad aumentare raggiungendo il 46 per cento di oggi. Abbiamo così dimostrato che non appena ci ritorna un po’ di respiro e di tempo subito ci adagiamo: è questo che l’Europa teme. L’unico successo, e non da poco, va detto, è stata la riforma pensionistica.
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