lunedì 27 gennaio 2014

L'INDIA DI LATORRE E GIRONE SPIEGATA DA UNO CHE C'è STATO SUL SERIO


Ieri avevamo pubblicato  l'articolo di Danilo Taino nel quale, in prima pagina e come editoriale (che un tempo rappresentava un po' la linea del giornale, ora non so più se sia così, sicuramente non sempre), si esortava la Nazione a stringersi unita per garantire quantomeno legalità alla vicenda dei nostri due marinai, Latorre e Girone, costretti in India da ormai quasi due anni.  Nel condividere il pensiero del bravo giornalista, che dall'inizio segue questa vicenda, avevo aggiunto qualche considerazione ( http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2014/01/il-corriere-della-sera-con-i-maro-gli.html), che, nel suo infinitesimo piccolo, anche il Camerlengo segue questa storia ab origine. Ecco, mi fa molto piacere ritrovare stamane, nel pensiero di Antonio Armellini, molte delle riflessioni svolte sul Blog.
Perché se io sono a cena con il pacifista e anti occidentale di turno, quello mi potrà obiettare che io dell'India non so nulla, se non quanto posso leggere o ascoltare sui media (che in genere è comunque assai di più du quello che fa lui...), con tutte le riserve del caso. Se poi però quelle cose vengono ripetute da uno che in India c'è vissuto un lustro e in una posizione di osservatore privilegiato (ambasciatore), allora, pur restando nel campo delle opinioni, le mie ricevono un avallo e quelle del mio interlocutore restano chiacchiere a tavola, frutto di un pregiudizio insuperabile ma infondato e indimostrato.
Buona Lettura



  "L’India, i marò e i molti autogol italiani" 


Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, quel 15 febbraio, erano due militari in servizio, incaricati di una missione di contrasto alla pirateria nell’interesse dell’Italia. Le regole di ingaggio nel caso di avvistamenti sospetti sono precise: invio di segnali vari prima e — in assenza di risposta — ricorso alle armi non per uccidere, ma per dissuadere. La morte dei due pescatori è stata comunque un dramma e può darsi, anche se allo stato non sembra, che nell’eseguire le regole i nostri abbiano commesso degli errori: se così fosse ne dovrebbero rispondere alla magistratura del loro Paese che in casi del genere è comunque tenuta ad aprire un’inchiesta. È sulla base di queste regole, e non di presunte pulsioni omicide, che dovrebbe essere valutata la loro azione con buona pace delle tante fantasiose, e inesatte, ricostruzioni che in questi mesi è capitato di leggere.
Erano imbarcati in base ad una normativa che ne consentiva la presenza su navi commerciali in navigazione in zone di pericolo. Sebbene le mansioni potessero essere assimilabili a quelle di contractors privati, tali non erano, in quanto si trattava di militari comandati in missione dalle loro autorità. L’ambiguità della catena di comando — del comandante nel caso di contractors su una nave commerciale, militare nel caso di membri delle forze armate in servizio — è stata all’origine della decisione di rientrare nel porto di Kochi. Quale che sia stato il ruolo rispettivamente dell’armatore e del nostro Stato Maggiore in quella sciagurata decisione, si sarebbe dovuto subito pensare di modificare la normativa per evitare che incidenti del genere — sempre possibili — avessero a ripetersi. Sono passati due anni e non è successo nulla; e sì che non ci sarebbe voluto molto per un rapido passaggio parlamentare per chiudere una volta per tutte la porta a situazioni del genere.
L’India è uno Stato giovane con un forte senso di identità nazionale, vissuto con una intransigenza resa più rigida dalla memoria del recente passato coloniale. Non è anti-italiana: il nostro Paese riscuote molta simpatia per la sua inventiva, la moda, il lusso e tutto quanto attrae la sua borghesia emergente, anche se non siamo sempre presi molto sul serio. Il «fattore Italia» pesa per contro molto sul piano interno: Sonia Gandhi ha dominato la scena politica per oltre un decennio e la sua principale fonte di debolezza — l’unica a volte — è quella dell’origine italiana, sbandierata dall’opposizione come segno di una inevitabile inaffidabilità nella gestione degli affari del Paese. A nulla vale che abbia dato infinite prove del contrario: l’accusa di una Italian connection compare puntualmente ogni volta che qualcosa riguardi l’Italia in India, che si tratti di business o, come in questo caso, di rapporti politici.
Il partito del Congresso si appresta ad affrontare le prossime elezioni politiche di primavera da una posizione di debolezza che rende concreta — dopo quattro generazioni al potere — la prospettiva che la dinastia Gandhi ceda lo scettro a una coalizione nazional-induista dalle forti connotazioni populiste. In tali condizioni, una vicenda come quella di Latorre e Girone rischia di pesare negativamente su una campagna elettorale già problematica. La magistratura indiana è indipendente ma non politicamente distratta: mi auguro di sbagliarmi ma non sarei stupito se Sonia Gandhi non fosse sorda all’ipotesi di un congelamento dell’intera vicenda sino all’estate quando, a elezioni concluse e a vittoria ottenuta o persa, il quadro delle opzioni potrebbe farsi per lei più chiaro.
Ciò non vuole dire che si debba subire in silenzio o rallentare gli sforzi. L’India è una grande democrazia; parla inglese e le sue élite seguono modelli di derivazione anglosassone, ma non è Occidente e rispetta in primo luogo la dinamica dei rapporti di forza. Non è il Paese spirituale e buonista che tanti immaginano, ed è a tratti intollerante e violento. Dimenticarsene, come direbbero gli inglesi, avviene a proprio pericolo. Senza cedere a seduzioni di «flettere i muscoli» (non siamo gli americani e oltretutto sarebbe velleitario), dovremo mettere in campo tutti i mezzi per negare la competenza indiana sulla giurisdizione ed arrivare come minimo ad un arbitrato internazionale.
Abbiamo dato in passato segnali contraddittori — inviando un Ministro degli Esteri a Delhi a pochi giorni dalla crisi per farsi dire di no, o indennizzando subito le famiglie dei pescatori così da alimentare una impressione di colpevolezza in un Paese dove le considerazioni umanitarie pesano molto meno che da noi — ma non è tardi per correggere il tiro. Più che sul congelamento di un negoziato brussellese in cui gli stessi indiani sono piuttosto cauti, è sul piano dell’incompatibilità fra l’aspirazione indiana — che è quasi una ossessione — ad un ruolo di primo piano nel Consiglio di Sicurezza e il rifiuto di svolgere un ruolo commisurato nel contrasto al flagello della pirateria, che potremmo giocarci qualche buona carta nell’Assemblea generale dell’Onu. Senza troppa paura di mostrare qualche spigolosità anche su altri piani ed evitando autogol inutili.
La pena di morte in India è comminata davvero nei casi più rari e all’inizio di questa vicenda Delhi non ci pensava seriamente. Il tema lo abbiamo sollevato noi, pensando forse che il clamore giornalistico potesse rafforzare la nostra posizione. Mentre ha fornito alle autorità indiane un insperato strumento tattico per metterci in difficoltà. Così ora il tema si è fatto reale e corriamo il rischio di dovere un giorno ringraziare Delhi per avere sì condannato Latorre e Girone, ma aver risparmiato loro la pena capitale. Non sarebbe male, come autogol . 


Antonio Armellini,  Ambasciatore italiano in India dal 2004 al 2008

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