Ho letto gli articoli scritti da Maria Giovanna Maglie e Antonio Ferrara sulla scomparsa di Ariel Sharon.
Li ho trovati entrambi belli ma il secondo l'ho trovato più completo e più critico, più consono, a parer mio, ad un personaggio grande e controverso come indubbiamente fu, per il mondo, il leader israeliano,
Conosco un po' la storia di Israele ma sicuramente in modo insufficiente quella di Sharon, pur sapendone i passaggi fondamentali. Grande capo militare, soldato di ferro, considerato responsabile della strage di Sabra e Chatila per non aver fermato i falangisti autori delle vendetta per la morte del presidente libanese, leader del Likud e della destra più diffidente nei confronti delle trattative con gli arabi, sembrava diventato più aperto al compromesso nell'ultima parte della sua vita politica, con la fondazione di una nuova formazione, Kadima, che voleva essere più aperta rispetto alla linea del Likud tradizionale, e con l'inaspettato ordine del ritiro da Gaza.
Sicuramente un uomo nella Storia, a riprova, una volta di più, che in quel libro non ci si entra attraverso una condotta da persone "per bene", secondo una morale di profilo leggero valido per le persone comuni.
Uomini siffatti, chiamati a prendere decisioni vitali per il proprio popolo, rispondono a principi diversi, e vengono giudicati sulla base di quello che hanno perseguito molto più che sul "come", come il nostro grande Machiavelli aveva cercato di spiegare bene 500 anni fa.
Buona Lettura
"IL FALCO DI ISRAELE"
Ora che se n’è andato, a quasi 86 anni, dopo un’esistenza tumultuosa, discussa, esaltante e soprattutto innervata di coraggio, lasciando un Paese orfano che fatica a raccogliere la sua eredità, dovrebbe essere più facile raccontare la vita di Ariel Sharon, il condottiero più controverso della storia di Israele, che è morto come non avrebbe voluto, al termine di una lunghissima agonia: 8 anni in coma. Eppure, nel momento in cui sono più forti il rispetto, la stima e il cordoglio per la scomparsa di un personaggio al quale più volte mi è capitato di chiedere ragioni e spiegazioni delle sue scelte ardite (soprattutto le ultime), riesce difficile cercare la sintesi della storia di un uomo che aveva estrema difficoltà ad accettare che la vita non è fatta di bianco e di nero, ma si colloca in quella zona grigia (o incolore) che lui ostinatamente rifiutava.
Era un generale e un leader indubbiamente capace di scatenare grandi passioni. I suoi soldati l’hanno sempre amato, quasi visceralmente. I suoi avversari, per decenni, lo hanno definito un guerrafondaio, un bugiardo, un soldato che amava le armi che uccidono il nemico ma che non conosceva, o almeno non era solito utilizzare quelle della critica. Per i sostenitori, diventati negli ultimi tempi la stragrande maggioranza degli israeliani, era un militare astuto, granitico, e un premier roccioso e rassicurante, al quale affidare nei momenti più difficili le sorti del Paese. Le sue coraggiose decisioni hanno dimostrato che la fiducia non era mal riposta. Aveva promesso di ritirarsi da Gaza e di smantellare tutti gli insediamenti ebraici della Striscia. Lo ha fatto. Aveva detto che se ne sarebbe andato dal suo partito, il Likud, se non fosse stato seguito sulla strada per risolvere il conflitto. Lo ha fatto, fondando una nuova formazione di centro, Kadima, che sette anni fa, al momento dell’uscita di scena del suo fondatore, era al 40% dei consensi. Soltanto Ben Gurion era riuscito a fare meglio. Con gli ospiti era educato, gentile, soprattutto simpatico. Durante la prima intervista che mi concesse da primo ministro, chiese notizie sul ristorante «Rigolo» di Milano nel quale aveva pranzato anni prima, e del quale gli erano rimaste impresse la qualità del cibo (era un buongustaio tipo extralarge, che certo non si preoccupava delle calorie, dei trigliceridi e del colesterolo) e la cortesia del proprietario. In attesa di un successivo incontro per un’altra intervista, chiese ancora qualche minuto di pazienza. Un’improvvisa telefonata dalla Casa Bianca? Ma no, un suo collaboratore mi rivelò sorridendo che il «capo» stava rapidamente divorando la sua merenda: tre Big Mac.
Tuttavia, anche adesso è difficile dire se il vero Sharon era lo spavaldo ufficiale accusato di aver compiuto un massacro nel villaggio giordano di Qibya nel 1953. Oppure il comandante dei paracadutisti che nel ‘56, per cercare di arrivare a Suez, sacrificò numerosi dei suoi soldati, nonostante le disposizioni dei suoi superiori non prevedessero quell’incursione. O ancora l’uomo che, diventato premier, aveva deciso di cambiar strada e di passare alla storia, non come uomo di guerra ma di pace. David Ben Gurion ne diffidava, anche se «Arik» (era il suo soprannome) era sempre capace di servirgli la versione meno compromettente, per giustificare uno dei suoi tanti colpi di testa. Golda Meir, che in pubblico ne tesseva le lodi, in privato non lesinava aspre critiche a quell’ufficiale che però meritava rispetto, perché sapeva motivare le truppe e aveva partecipato, sempre in prima linea, a tutte le guerre di Israele. Fu memorabile l’avanzata compiuta nel 1973, quando alla testa dei suoi uomini riuscì ad attraversare il canale di Suez. Non si trattò di un episodio marginale ma di un’operazione che ebbe un peso determinante sull’esito di una guerra cominciata malissimo. In quei giorni, il generale conquistò la fama di «eroe di Israele», che mantenne ininterrottamente fino a quando, meno di dieci anni dopo, la sua irruenza costò cara a lui, che era stato nominato ministro della Difesa, e al primo ministro Menachem Begin, un conservatore che non aveva nulla della durezza di un militare. Nell’82, infatti, Sharon garantì a Begin che la campagna libanese, avviata per prevenire gli attacchi dei guerriglieri palestinesi contro il nord della Galilea, non sarebbe stata un’invasione ma una «passeggiata» di una ventina di chilometri. Contravvenendo alla promessa, il generale giunse fino a Beirut e una commissione d’inchiesta israeliana accertò le sue indirette responsabilità per la strage di Sabra e Shatila, con il massacro di oltre 1.200 civili palestinesi. La strage fu compiuta dai falangisti cristiani, mentre gli uomini di Sharon si voltavano dall’altra parte. La vicenda costrinse Begin alle dimissioni e, con esse, cominciò il rapido declino del suo ex braccio destro militare. I sussulti che avrebbero costruito le fondamenta del dialogo con l’Olp di Yasser Arafat, sfociato poi negli accordi di Oslo del 1993, si erano intensificati e ormai non c’era più posto per il ruvido ufficiale che predicava la politica degli insediamenti (ampliare i vecchi e crearne di nuovi) e in fondo non nascondeva la sua simpatia per i progetti di espulsione di tutta la popolazione palestinese dai territori occupati. Alla fine degli anni 80, quando era ormai un outsider, in un’intervista all’inviato del Tg1 Fabrizio Del Noce e a chi scrive, a una domanda su Arafat rispose con una battuta feroce: «Arafat? Cosa volete che vi dica? È un terrorista. Deve essere ucciso».
Ormai sul viale del tramonto, Sharon si era praticamente ritirato nel suo ranch, nel Negev, dedicandosi agli affetti familiari, troppo spesso trascurati. La sua prima moglie, Margalit, dalla quale aveva avuto un figlio, Gur, morì in un incidente d’auto, e il ragazzino rimase ucciso, durante un gioco pericoloso, dal colpo di pistola sparato da un coetaneo. Due choc terribili, anche perché alcuni insinuarono che la «disattenzione stradale» di Margalit fosse dovuta al dolore per le attenzioni che il marito riservava a sua sorella Lily. Dicerie malevole, sicuramente, anche se Lily divenne, alla morte di Margalit, l’amatissima seconda moglie del generale, e gli diede due figli, Gilad e Omri, cresciuti all’ombra del padre (al quale avrebbero dato in futuro non pochi grattacapi), di cui però hanno condiviso l’amore per la terra e l’agricoltura. «In fondo — diceva Sharon — ho l’anima del kibbutznik». Tuttavia, delle comunità dei kibbutz, lui, di origine russa, non apprezzava di sicuro l’ideologia socialista. Dopo la morte del premier laburista Yitzhak Rabin, ucciso dall’ebreo fanatico Ygal Amir, e la sconfitta di Shimon Peres alle elezioni, tornò sul palcoscenico quasi di malavoglia, accettando un incarico nel governo di Netanyahu. Il quale glielo offrì a denti stretti, e soltanto perché Sharon continuava ad essere popolarissimo nella destra del Likud. Ma i due non si sopportavano. La sconfitta di Netanyahu e la crisi che conseguentemente si era prodotta al vertice del Likud, costrinsero anche gli scettici a ricordarsi dell’anziano generale, che troppi consideravano ormai definitivamente giubilato. Il processo di pace languiva, anzi aveva cominciato pericolosamente a sfaldarsi. Una spallata sicuramente gliela diede lo stesso Sharon quando, alla fine di settembre del 2000, decise di lanciare un’altra provocazione: una passeggiata, accompagnato da oltre 1.000 soldati, sulla spianata delle moschee di Gerusalemme, terzo luogo sacro dell’Islam, dopo Mecca e Medina. I palestinesi, che non aspettavano che un pretesto per riaccendere la rivolta, reagirono violentemente. Cominciò così la seconda intifada, e cominciò così la vera carriera politica di Sharon.
Negli anni 90 il filosofo Avishai Margalit disquisiva sull’attrazione fatale del vecchio generale per l’escalation, in quanto «nel disordine risultante risulterà sempre vincitore». Ma lo Sharon premier sembrava diverso, o meglio aveva trasferito la sua passione per l’«escalation» nel campo della politica verso la pace. «È una vecchia tigre — diceva Peres — e le vecchie tigri perdono i denti». In realtà, i denti Sharon non li aveva persi, riuscendo a far convivere la strategia muscolare con quella di un futuro accordo con i palestinesi. All’inizio del 2004, quando annunciò il ritiro unilaterale da Gaza e lo smantellamento di tutti gli insediamenti ebraici nella Striscia (poi realizzato nell’agosto del 2005) provocò un autentico choc. Proprio lui, il padrino degli insediamenti, aveva deciso di infrangere un tabù: «Voglio entrare nei libri di storia come l’uomo che è riuscito a portare la pace, garantendo però la sicurezza di Israele».
Gli ultimi passi avanti di Sharon, studiati come ardite manovre militari, non soltanto hanno lasciato il segno, ma hanno modificato radicalmente lo scenario politico del Paese. Avrebbe potuto vincere, per la terza volta, le elezioni, e quindi procedere spedito ad altre «dolorose concessioni» ai palestinesi. La gente ne era convinta. E oggi si sente orfana di un uomo che si è dovuto arrendere alla violenza di una crisi circolatoria e a devastanti emorragie cerebrali. Adesso c’è chi prova a immaginare che cosa avrebbe fatto il vecchio leader dopo il trionfo di Hamas alle elezioni palestinesi. Esercizio impossibile, non soltanto perché il premier non c’è più, ma perché, se fosse ancora in vita e in grado di governare forse ci stupirebbe con qualche altra mossa imprevedibile. Sì, nel bene e nel male, soprattutto nel bene, entrerà nei libri di storia, signor primo ministro. Riposi in pace .
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