Curioso di storie. Mi piace ascoltarle e commentarle, con chiunque lo vorrà fare con me.
martedì 11 febbraio 2014
"CI CHIAMAVANO FASCISTI, ERAVAMO ITALIANI"
Ieri ho visto su RAI 1 lo spettacolo di Simone Cristicchi, scritto in collaborazione con Jan Barnas, giornalista e autore del libro Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani. Lo spettacolo è un’opera generosa dedicata agli eccidi delle foibe che racconta il dramma dell’ esodo istraiano, giuliano e dalmata, nel dopoguerra: la storia dimenticata degli Italiani costretti ad abbandonare la propria terra per andare incontro a miseria e morte. Il Magazzino 18 è l'edificio del Porto Vecchio di Trieste in cui sono tuttora conservati i mobili degli esuli.
Il 10 febbraio è dal 2004 il giorno dedicato al ricordo di questa orribile pagina di storia, per decenni taciuta e per motivi che ben si possono comprendere dalla parte che quel silenzio difese tenacemente.
Simone Cristicchi è nato a Roma ed è giovane. Un po' mi stupisce, positivamente, che abbia voluto dedicarsi alla realizzazione di uno spettacolo "scomodo", anche se farlo oggi certamente crea meno problemi di qualche anno fa. Meno, ma non nessuno, che a Scandicci, 50 deficienti di qualche collettivo pseudo partigiano e pro resistenza ( non credo che la Resistenza abbia nulla da guadagnare a difendere quelli che si macchiarono di episodi come la malga di Porzus ) li ha trovati. Si sono presentati al teatro Aurora dove si doveva tenere lo spettacolo e hanno realizzato un teatrino di quelli loro. Ho visto il filmato e devo dire che, rispetto ad altre occasioni, sono stati meno peggio del solito, che in fondo in un quarto d'oro hanno fatto il loro show e se ne sono andati, così che poi Cristicchi ha potuto finalmente dare inizio allo rappresentazione. Certo, con che spirito, suo e degli spettatori, specie dei molti esuli invitati in sala o i loro familiari, è possibile immaginare.
Così l'artista : " I pacifici manifestanti di Scandicci hanno ben pensato di immortalare la loro legittima protesta in questo didascalico video, che meglio insegnerà ai loro compagni come approcciarsi con chi non la pensa alla stessa maniera: forse faranno un po' di confusione al momento "basta lo diciamo noi!" e confonderanno quel tipo di rosso con il nero che contestano, dato che non c'é differenza alcuna.
Nota a margine: nessuno dei manifestanti ha ritenuto fosse importante assistere in prima persona a ciò che erano venuti a contestare per scoprire se stavano dicendo o no la verità, e nessuno ha accettato l'invito a rimanere per assistere allo spettacolo."
Ecco, è proprio così, da tanto tempo.
Se il fascismo è stato (anche) intolleranza, negazione della libertà, violenza verbale oltreché fisica , difficile non vedere negli antifascisti di professione i continuatori più fedeli e militanti di quella pagina di storia.
Di seguito il bell'articolo di Belardelli sul 10 febbraio.
L’indicibile (per anni) violenza delle foibe
Gli atti di vandalismo compiuti ieri ai danni di qualche monumento alle vittime delle foibe vanno ovviamente condannati, ma senza sopravvalutarli. Da tempo infatti il Giorno del ricordo, dedicato alla memoria degli italiani vittime della violenza jugoslava e insieme dei circa trecentomila esuli che nel dopoguerra dovettero lasciare l’Istria e la Dalmazia, vede il manifestarsi di contestazioni scarsissime di numero e per così dire residuali. Direi anzi che su pochi argomenti del nostro passato recente il giudizio prevalente è cambiato come in relazione alle drammatiche vicende che ricordiamo il 10 febbraio.
Le violenze commesse dall’esercito popolare jugoslavo durante l’occupazione di Trieste — dapprima dopo l’8 settembre 1943, poi nei terribili quaranta giorni seguiti alla «liberazione» della città — hanno rappresentato per decenni episodi letteralmente indicibili, per almeno due fondamentali motivi. Le vicende legate all’esodo ricordavano al Paese qualcosa che la maggioranza degli italiani — la gente comune ma anche le élites politiche e intellettuali — aveva preferito rimuovere rapidamente: il fatto che l’Italia — nonostante la Resistenza, nonostante il rango di Paese cobelligerante ottenuto dagli Alleati — la guerra l’aveva pur sempre persa, dovendo subire al suo confine orientale una amputazione territoriale particolarmente significativa (anche per gli echi simbolici che rimandavano alla guerra del ’15-18). Inoltre, il tema delle violenze esercitate dai comunisti jugoslavi contro gli italiani era particolarmente imbarazzante per il Pci, che durante la guerra (e oltre) aveva seguito nei suoi rapporti con Tito una politica a dir poco ambigua; una politica che, ad esempio, nel 1944 aveva indotto i comunisti italiani a uscire dal Cln di Trieste e a far entrare le proprie formazioni partigiane nell’esercito di liberazione jugoslavo. Politici e intellettuali comunisti (storici compresi) a lungo continuarono a sostenere che nelle foibe erano stati gettati solo dei fascisti, come reazione alla politica di sopraffazione e snazionalizzazione che il regime di Mussolini aveva adottato nei confronti delle minoranze slovena e croata.
In realtà le violenze jugoslave si erano rivolte contro gli italiani in quanto tali — antifascisti compresi — poiché essi rappresentavano un ostacolo per le mire annessionistiche di Tito. Ma per anni affermare questo, e ricordare le vittime delle foibe o l’esodo dei profughi giuliano-dalmati, significava venire considerati inequivocabilmente di destra e anzi essere bollati come «fascisti». Terribile, al riguardo, l’episodio che Claudio Magris ha narrato su questo giornale vari anni fa, rievocando quanto accadde ad alcuni esuli che, lasciate le loro terre e costretti a chiedere rifugio nella Penisola, si trovarono a sostare alla stazione di Bologna: i ferrovieri comunisti minacciarono di bloccare il traffico di quell’importante nodo ferroviario se si fosse permesso a quelle povere famiglie di scendere dal treno per rifocillarsi. Ai loro occhi, i profughi avevano avuto la fortuna di essere stati collocati dal nuovo confine nella Jugoslavia di Tito, che stava costruendo un radioso futuro socialista. Se vi avevano rinunciato, voleva dire che erano fascisti.
Questa era l’Italia di fine anni 40. Ma il pregiudizio negativo nei confronti di quegli esuli, l’innominabilità delle foibe, durarono a lungo. Ancora venti anni fa, alcuni esponenti del Pds triestino chiedevano alla Rai di non trasmettere la puntata del programma Combat film, dedicato appunto alle foibe. Ma proprio dai ranghi della sinistra postcomunista doveva venire di lì a non molto la fine dell’ostracismo, con il segretario del Pds triestino Stelio Spadaro che nell’estate 1996 — presto seguito da dirigenti del rango di Piero Fassino — chiese a gran voce al suo partito di cambiare finalmente il giudizio sulle foibe. In un crescendo di polemiche, interviste, articoli (il Corriere arrivò a pubblicarne almeno uno al giorno) infine il muro della memoria si sgretolò. Con qualche residua resistenza, certo: alcuni dizionari ed enciclopedie continuarono ancora per un po’ a menzionare le foibe soltanto come «depressioni carsiche», omettendo di ricordare le migliaia di povere vittime che vi erano state gettate, spesso ancora vive; una fiction Rai, nel 2005, chiamava pudicamente i comunisti jugoslavi soltanto «titini» per non offendere non si sa bene chi. Ma a suggellare un cambiamento generale di clima c’era ormai stata, nel 2004, la legge che istituiva il Giorno del ricordo, approvata da tutti i partiti esclusi alcuni irriducibili nostalgici di Rifondazione e del Partito dei comunisti italiani. Ieri abbiamo tutti potuto vedere la cerimonia al Senato, che conferma ulteriormente come la memoria di un Paese non sia necessariamente immobile, dunque come l’evocazione del «passato che non passa» sia spesso soltanto un modo per coprire i nostri pregiudizi e le nostre pigrizie.
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I giovani violenti di sinistra sono "soltanto generosi nipotini dei partigiani che esagerano un po'..."
RispondiEliminaMondo schifoso.