Dirò poche parole in questo Post. In realtà è il desiderio di dare diffusione ad una recensione scritta dal mio caro amico Cataldo (con cui ogni tanto mi scontro, anche burberamente, ma vabbè, succede) e relativa ad un recente libro di Nicolò Amato dedicato alla vicenda di Bettino Craxi.
L'ho trovata BELLISSIMA, con brividi finali.
Per questo non aggiungo altro, che, parafrasando un vecchio slogan anti pubblicità, "non si commenta un'emozione".
BETTINO CRAXI DUNQUE COLPEVOLE di Nicolò Amato Recensione
“Courage is not a man with a gun in his hand.
It's
knowing you're licked before you begin
but
you begin anyway and you see it through
no matter what. You rarely win,
but
sometimes you do." (Harper Lee , il buio oltre la siepe)
Vent’anni
sono normalmente un lasso di tempo
sufficiente perché la cronaca frenetica
di ieri diventi pacata analisi storica, ma il caso Craxi è un’eccezione.
Me ne sono accorto intervenendo alla
presentazione del bel libro di Nicolò Amato “Bettino Craxi dunque colpevole”,
(Rubbettino 2013) svoltasi presso l’Università Ecampus a Roma a fine gennaio.
Sala gremita, panel di rilievo ( oltre l’autore del volume, Goffredo Bettini,
Mario Sechi, Stefania Craxi)
un’atmosfera di accesa partecipazione di cui a tratti ha fatto le spese
Bettini, esponente dei vecchi DS accusati di essere stati complici
dell’esecuzione giudiziaria del leader socialista. Mi è venuto spontaneo
riflettere mentre i correlatori discutevano animatamente che le ferite erano ancora aperte, quelle
politiche e quelle giudiziarie, e che la guerra civile tra due parti del paese
è un lungo filo ininterrotto che dal dopoguerra ad oggi attraversa la storia
del paese. La novità, iniziata col caso Craxi è che al tavolo degli eventi si è
seduto un terzo protagonista che da allora riveste un ruolo che unanimemente, compresi i diretti interessati,
viene definito come anomalo e tuttavia ancora determinante nella vita politica
del paese :la magistratura. Ed a me leggendo con profondo interesse di avvocato
oltre che di elettore il libro è parso
subito chiaro che accanto alla personalità preponderante del politico ( un uomo
da definire con tipica espressione anglosaasone “larger than life” fisicamente,
emotivamente, intellettualmente) l’altro protagonista del libro sia stato il
processo penale, il suo meccanismo cosi spesso infernale.
Una
valutazione sorprendente pensando alla circostanza che l’autore Nicolò
Amato è stato esponente di primissimo piano della magistratura dove ha vissuto
pagine importanti come pubblico ministero a Roma ( il processo Agca e Moro ad
esempio) prima di ricoprire importanti incarichi come direttore del DAP, ( sua
l’espressione “ carcere della speranza” nella non facile epoca delle grandi
stragi di mafia) ed infine di entrare nell’avvocatura. Molte vite e tutte con
ruoli ed incarichi di responsabilità, e la capacità rara di spiccare in due
professioni così opposte come quella del Pm e quella del difensore privato. Noi
avvocati accogliamo sempre con una sorta di mal dissimulato scetticismo colui
che rinunciando ai “voti” dell’ordine di appartenenza viene ad ingrossare le
nostre fila. “ Se ne accorgerà ora cosa vuol dire::”. A giudicare dal suo
libro, l’avvocato Nicolò Amato se n’è accorto ben presto “ come è duro calle lo
scender e ‘l salir per le altrui scale” . E questo viaggio nell’inferno del
processo penale, vuoto cerimoniale di una formale giustizia, visto dalla parte
di chi ha torto è la parte più intensa del libro ,la più sofferta e sorprendentemente
resa con felicità e sensibilità di accenti ( nonostante la provenienza
dall'altra parte della barricata).
Per
un diffuso pregiudizio si è portati a pensare che il magistrato porti con sé
sempre un tratto distintivo, una sua differenza quasi antropologica anche
quando passa sull’altro versante per cui
“ semel abbas semper abbas” ed in effetti le tracce della antica vocazione sono
presenti e fanno ogni tanto capolino dalle pagine, in un certo velato pudore di
critica, quando forse molti di noi non avrebbero lesinato l'invettiva. Se è
vero che la funzione marca la cognizione, la differenza tra i due soggetti del
processo, il pm che alimenta il sospetto e l’avvocato che coltiva il dubbio è
così ampia da non potere essere facilmente colmata. Eppure rare volte ho
sentito descrivere con toni così accorati la disperazione del difensore di
fronte al muro delle sentenze che avverte già scritte( ci vuole poco sapete a
capire, il problema è dirlo con il dovuto tatto all’assistito che lotta per la
sua vita, l’unica che possiede).
“…come infatti difendere, come difendersi,
quando parli e nessuno ti ascolta, ascolti e nessuno ti parla, quando parlare o
tacere, esserci o non esserci, è la medesima inutile cosa, salvo per il
rispetto della forma del rito nella cerimonia della giustizia, ma attori senza
più parte nel dramma del processo, convitati di pietra nei tribunali, resi
silenziosi dall’indifferenza che inghiottiva le nostre parole, difensori
dell’impossibile, venuti da un altro tempo, diretti ad un altro luogo,
aggrappati con ostinata nostalgia ad un vecchio codice che citavamo con
orgoglio senza accorgerci che era stato abrogato o forse un po’ l’avevamo
intuito e però era difficile rassegnarci a un così mesto tramonto…”
Ecco,
anche il più incallito e disincantato degli avvocati non riuscirebbe a cantare
cosi il dolore del difensore di fronte all’inutilità del suo lavoro, la
frustrazione dello schiaffo contenuto nelle righe di un dispositvo che ti
ferisce nell’orgoglio, che ti leva l’illusione di una distanza annullata .
Certo, poi bisognerebbe interrogarsi perché uno nella vita scelga deliberatamente, ( non si sa se lucidamente)
di perdere più di quanto possa vincere ( un meccanismo simile a quello che
decide di tifare per la Roma, ci deve essere un gusto speciale nella sconfitta,
o non è forse vero che noi raccontiamo con accenti di mito più la sofferenza che la gioia?)
Accanto
al tono diciamo così intimista e
psicologico vi è nel libro la riflessione giuridica e politica che io trovo
ricca di spunti ed attuale in un momento in cui il senso della professione rischia di perdersi e su questo conviene
soffermarsi
Il
processo di Bettino Craxi è la storia di una dolorosa sconfitta umana e
professionale, ma è anche il quadro lucido della deriva giustizialista che da
lì ha preso le mosse ed ancora così pesantemente condiziona la vita del paese
Se
non può sottacersi l'evidenza della degenerazione del sistema politico
dell'epoca è altrettanto indiscutibile il ricorso a prassi distorte di
indagine, all'uso strumentale del processo in chiave volutamente inquisitoria,
all'anticipazione del giudizio alla fase di indagine tramite l'utilizzo
spregiudicato dei media e la costante violazione del segreto di indagine. Amato
in uno dei passi più evocativi ricorda il discorso di Robespierre all'assemblea
con il quale negava in radice l'utilità di un pubblico processo a Luigi XVI ,
in quanto un giusto e pubblico dibattimento per il solo fatto che avrebbe
concesso la difesa e dunque la confutazione delle accuse sarebbe suonato come una
sconfessione dell'atto rivoluzionario e purificatore. Stranamente , ma non
tanto, è un paradosso che ricorda un analogo ragionamento del procuratore capo
di Milano Borrelli che nel propugnare ( bisogna dire diversamente da
Robespierre) una soluzione di pacificazione sottolineava l'inutilità di
svolgere i numerosi processi originati dalle indagini di Mani Pulite, perchè
ormai l'opinione pubblica aveva emesso il suo verdetto. E questo alla fine è l'unica cosa che conta , la
giustizia plebiscitaria.
E'
un ragionamento miope, il modello Mani Pulite non ha eliminato le radici della
corruzione, non ha rivoltato il paese come un calzino né è stata una
palingenesi rivoluzionaria, una visione bambinesca e puerile della storia . Ha
invece aumentato a dismisura il ruolo della magistratura, col risultato che i
ritardi, le arretratezze, i conflitti di interesse della macchina giudiziaria
si sono scaricati con effetto moltiplicatore
sulla società italiana.
Ciò
nonostante, non mi sento di condividere l'atteggiamento vittimistico di molta
parte dell'avvocatura, il peso e l'influenza della magistratura nella vita del
paese non è da attribuirsi ad un destino cinico e baro, ai poteri forti o al
ruolo istituzionale, ma anche alla capacità di sviluppare una visione sociale
storica che parla ad una consistente fetta del paese. Una narrazione, tutto
sommato schematica ed insufficiente ma suggestiva, di lotta tra buoni e cattivi
che ha intercettato la rabbia e la frustrazione di molti.
Si
potrebbe dire, senza ritenere di discostarsi molto dalla realtà, che il ruolo
dei magistrati ricorda molto da vicino la tutela dei militari turchi sulla
laicità dello stato, scaturita dalla rivoluzione di Ataturk che mise fine alla
monarchia . Ai giudici italiani una sorta di costituzione materiale o di
vulgata sembra aver delegato il controllo sull'eticità dello stato.
Tale
occhiuta sorveglianza viene esercitata
in modo sovente schematico, culturalmente arretrato, denso di diffidenza verso
alcuni fenomeni della società moderna come la libertà di circolazione dei
capitali, la finanziarizzazione dell'economia, la libertà di trasferimento e di
stabilimento delle imprese
Come
bene ha detto un acuto osservatore come Galli Della Loggia è puerile distinguere tra una modernità buona
(ad esempio nello sviluppo del costume, dei vincoli sociali e familiari) e la
modernità “cattiva” dei soldi e della spinta all'arricchimento- C'è la
modernità, un insieme di cambiamenti spesso tumultuosi in cui la libertà
individuale, il suo libero dispiegarsi deve essere tutelato, come mezzo di
democrazia sociale e di cambiamento . La
difesa dei diritti individuali è una potente spinta alla modernizzazione ed è
questo il compito storico di una avvocatura moderna. Una grande occasione che
si sta perdendo, proprio nei tempi difficili che favoriscono la sparizione di
modelli superati, perchè gli avvocati non si sanno raccontare ed una visione
del mondo oltre le quattro mura dello studio e del Tribunale , preferibilmente
sotto casa, non sa andare-
Molto
spesso quando mi capita di parlare in qualche corso ai giovani colleghi cito lo
straordinario personaggio di un libro straordinario “Il buio oltre la siepe”
l'avvocato Atticus Finch che nel profondo ed arretrato Sud americano degli
anni'40 assume la difesa di un nero accusato di aver violentato una giovane
bianca. Una difesa considerata infamante e disonorevole che si conclude con
un'amaro verdetto di condanna. Ma restano indimenticabili le parole con
l'avvocato spiega alla giovane figlia in lacrime il senso di quella sconfitta,
la consapevolezza di far parte come difensore
del movimento della storia, del progresso, della lotta dei diritti civili, l'orgogliosa
rivendicazione che “la coscienza di un uomo e'l'unica cosa che non debba conformarsi al
volere della maggioranza “ e che il coraggio non è avere una pistola in
mano, ma pur sapendo di essere battuto prima ancora di cominciare ,
ugualmente iniziare e vedere cosa accade: “Raramente vinci, ma qualche volta
succede”
Cataldo Intrieri
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