La buona notizia è che Luca Ricolfi è tornato a scrivere con regolarità su La Stampa, dopo un periodo (magari legato alla cura del suo ultimo libro, "L'Enigma della Crescita") dove i suoi editoriali erano divenuti radi (anche oltre il mese). Ora invece mi sembra di vedere ristabilita una frequenza settimanale o poco più, e stimando grandemente l'opinionista (nonché professore e studioso di analisi dei dati ) ovviamente ne sono ben contento.
L'altra cosa positiva dello scritto che andiamo a postare, è la sintesi chiara, semplice, lineare dei numeri della Spesa Pubblica.
Il dramma è quanto ne emerge : sono ben 100 i miliardi di spesa pubblica che si potrebbero tagliare, mantenendo esattamente lo stesso (basso) livello dei servizi attuali. Quindi, operando questi tagli, si potrebbe anche immaginare di destinarne una parte all'abbattimento del debito, che so, il 50% ?, e il resto ad aumentare l'offerta di servizi (più posti negli asili nido, più borse di studio).
Ma questo è un orecchio da cui i sindacati, ma nemmeno i politici (vedete le difficoltà dello stesso Renzi, che pure si presenta come un "rivoluzionario") ci sentono. Per i sindacati la spesa NON si tocca, anzi, va aumentata, recuperando soldi dall'evasione fiscale.
Sempre Ricolfi scrisse un bellissimo e provocatorio libricino ( http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2013/06/luovo-di-colombo-di-ricolfi-la-destra.html ) lo scorso anno in cui lanciava questa SFIDA (il titolo era proprio questo ) : alla "destra" il compito di diminuire le tasse prendendo risorse dall'evasione fiscale ; alla "sinistra" di migliorare il welfare agendo sugli sprechi. Entrambe le parti avrebbero un tesoretto su cui pescare di circa 100 miliardi..., se anche riuscissero a incidere sulle rispettive sfere di competenza per "solo" un 30% ci ritroveremo con 30 miliardi di tasse in meno e 30 destinabili a servizi migliori.
E si smetterebbe anche di assistere al rimpallo delle responsabilità. che tanto entrambi i fronti sarebbero toccati.
Da leggere, sia pure con una certa angoscia finale
Spesa pubblica, perché i tagli
sono difficili
Ti consigliamo:
Sono troppi o troppo pochi 34 miliardi all’anno di tagli della spesa pubblica?
La domanda aleggia nelle stanze della politica da qualche giorno, perché 34 miliardi è quanto il Commissario alla spending review Carlo Cottarelli ipotizza di risparmiare nel 2016, dopo aver tagliato la spesa pubblica di 7 miliardi quest’anno e 18 l’anno prossimo.
La sequenza 7-18-34, a quanto pare, spaventa Renzi e i suoi. Non solo perché siamo sotto elezioni, e parlare di tagli di spesa pubblica ad appena 60 giorni dal voto può danneggiare il partito del premier, ma anche perché alcuni tagli ventilati da Cottarelli, ad esempio quelli alle pensioni superiori a 2500 o 3000 euro mensili lordi, appaiono davvero sorprendenti: come si fa a considerare ricco, e quindi soggetto a un «contributo di solidarietà» (che brutta e ipocrita espressione…), un pensionato che incassa 2000 euro netti al mese, e nello stesso tempo considerare povero, e quindi da aiutare con uno sgravio Irpef, un lavoratore dipendente che di euro al mese ne guadagna 1500?
Dunque Renzi frena. Secondo alcuni (Federico Fubini venerdì su Repubblica) sarebbe orientato a tagli di «soli» 20-25 miliardi, meno di quanti ne aveva programmati il timido governo Letta.
Secondo altri, più maliziosi, la vera entità dei tagli che Renzi si appresta a mettere in cantiere, specie riguardo alle pensioni del ceto medio, la conosceremo solo dopo le Europee, quando non ci saranno più appuntamenti elettorali importanti alle porte.
Che cosa dobbiamo pensare?
Non lo so, perché delle vere intenzioni del premier (ammesso che esistano) non ho la minima idea. Però, avendo studiato per anni gli sprechi della Pubblica amministrazione, ho un’idea di quanto grandi essi siano e del perché sarà impossibile eliminarli a breve.
Cominciamo dalle cifre. La spesa pubblica, se trascuriamo gli interessi sul debito e le pensioni vere e proprie (che sono retribuzioni differite), ammonta a circa 500 miliardi. Questa cifra include sia la spesa sociale in senso stretto (sanità, scuola, assistenza, ammortizzatori sociali) sia le spese generali di funzionamento di qualsiasi stato moderno (difesa, giustizia, carceri, amministrazione, trasporti, infrastrutture). La stragrande maggioranza degli studi che hanno provato a stimare l’entità degli sprechi in uno o più di tali settori hanno riscontrato tassi di spreco medi nazionali compresi fra il 15% e il 30%. Tali tassi, però, variano enormemente da territorio a territorio, diciamo da un minimo del 5%, tipicamente riscontrabile per diversi servizi erogati in Lombardia e in Veneto, fino al 50%, tipicamente riscontrabile in molte (non tutte) le regioni meridionali. Complessivamente, una stima prudente del tasso medio di spreco a livello nazionale, intendendo con spreco tutto quel che si spende in più rispetto ai territori più efficienti, si può situare intorno al 20%. In concreto significa che, ogni anno, buttiamo dalla finestra più o meno 100 miliardi di euro, dove «buttare dalla finestra» significa che potremmo produrre gli stessi servizi spendendo 400 miliardi anziché 500 o, alternativamente, che con la medesima spesa di prima potremmo ampliare i servizi di circa il 20%: più asili nido, più politiche contro la povertà, migliori ospedali, migliori scuole e così via.
Se ci fermiamo fin qui la conclusione è scioccante: altroché troppi tagli, 34 miliardi è appena un terzo di quel che si potrebbe tagliare! Dunque Renzi dovrebbe tagliare di più, non di meno di quel che Cottarelli ipotizza.
C’è un «però» grande come una casa, tuttavia. Tagliare senza ridurre i servizi è difficile, difficilissimo (su questo, e fino a questo punto, i sindacati hanno perfettamente ragione). Si può fare, ma solo a tre condizioni, nessuna delle quali è attualmente rispettata, e l’ultima delle quali è indigeribile per i sindacati.
Prima condizione (studi macro). Ci vogliono studi di settore, servizio per servizio, articolati territorialmente almeno a livello regionale, per individuare le «migliori pratiche» (le cosiddette best practices) e stimare il tasso di spreco di ogni territorio, che si può ricavare da un confronto sistematico, in termini di costi e benefici, con il territorio meglio organizzato. Bisogna, in altre parole, continuare il lavoro meritoriamente iniziato dalla Commissione Muraro (Commissione tecnica per la finanza pubblica), insediata nel 2007 da Padoa Schioppa e malauguratamente sciolta da Tremonti nel 2008, dopo poco più di un anno di lavoro. Non è questo, a quel che è dato conoscere, il lavoro che sta facendo il Commissario Cottarelli. Eppure nessuna riduzione degli sprechi è possibile in Italia se non si parte da studi macro ben fatti e da obiettivi di risparmio territoriali.
Seconda condizione (studi micro). Una volta individuate le inefficienze di uno specifico servizio e la loro distribuzione territoriale, occorrono studi molto precisi e dettagliati per passare dalla individuazione dell’entità complessiva degli sprechi alla loro eliminazione in un dato territorio. Quando il governatore Cota mi chiese di dare una mano a razionalizzare la spesa sanitaria in Piemonte, non se ne fece nulla perché lui voleva risultati in pochi mesi, mentre io ritenevo che un piano che non peggiorasse il servizio ai malati richiedesse almeno 2 anni di duro lavoro di un’équipe di decine di medici, infermieri, sociologi, economisti, eccetera. Il governatore della mia regione aveva commesso, a mio parere, il medesimo identico errore di Renzi e di tutti i premier che lo hanno preceduto: quello di sbarcare al governo senza avere né un’analisi, né piani operativi pronti, né la consapevolezza che, se li si intende costruire da zero, bisogna avere la pazienza di aspettare 2-3 anni.
Terza condizione (comando). Una volta capito che un determinato servizio in un dato territorio «spreca», poniamo, 100 milioni di euro, e che per ridurre lo spreco bisogna intervenire in determinati, specifici, punti del sistema di erogazione del servizio, manca ancora una condizione fondamentale, quella che in un libro di qualche anno fa Giulio Tremonti ebbe a chiamare il «comando» nella Pubblica amministrazione. Occorre, in altre parole, che ci sia qualcuno che abbia sia la competenza sia il potere per riorganizzare il servizio, e non solo per imporre tagli di spesa. Oggi non esiste praticamente alcun servizio erogato dalla Pubblica amministrazione in cui un dirigente informato e motivato abbia un effettivo potere di riorganizzazione. E questo per la semplice ragione che chiunque provi a mettere le mani davvero su mansioni, orari di lavoro, trasferimenti, ruoli e gerarchie, invariabilmente incontra la più o meno sorda resistenza di tutti, dai sindacati che preferiscono tutelare i propri iscritti piuttosto che difendere gli utenti, ai singoli lavoratori che non esitano a ricorrere alla magistratura pur di evitare qualsiasi decisione che non gradiscono.
Purtroppo nessuna delle tre condizioni precedenti è soddisfatta, per adesso. Il lavoro della commissione Muraro è incompleto e in ogni caso andrebbe aggiornato. Di studi analitici se ne conoscono pochissimi, mentre ce ne vorrebbero diverse centinaia. Quanto a ristabilire un minimo di «comando» nella Pubblica amministrazione, ne siamo lontani anni luce. A queste tre difficoltà, ne andrebbe poi aggiunta un’altra, di tipo politico generale, e cioè che una spending review che volesse fare sul serio non potrebbe nascondere tre fatti su cui i governanti, chiunque essi fossero, hanno sempre preferito sorvolare: che il grosso degli sprechi e delle inefficienze nell’erogazione dei servizi ha luogo nel Mezzogiorno; che spendiamo ogni anno 10 miliardi per false pensioni di invalidità; che almeno un terzo dei «poveri» che usufruiscono di esenzioni varie, dai ticket sanitari alle tasse universitarie, sono finti poveri, che evadono il fisco o autocertificano il falso.
Conclusione?
Nessuno, in Italia, riuscirà mai ad azzerare 100 miliardi di sprechi della Pubblica amministrazione. Sarebbe già molto che un governo riuscisse a eliminarne la metà, diciamo 50 miliardi, ossia un po’ di più di quello che Cottarelli ha ipotizzato per il 2016. Per farlo, però, occorrerebbe che fossero soddisfatte le condizioni che ho ricordato. Finché non lo saranno tutte e tre, dalla più facile (la prima) alla più difficile (la terza), è inutile illudersi. Se 34 miliardi di tagli saranno, scordiamoci i servizi. E se vogliamo salvare i servizi, scordiamoci i 34 miliardi di tagli.
La domanda aleggia nelle stanze della politica da qualche giorno, perché 34 miliardi è quanto il Commissario alla spending review Carlo Cottarelli ipotizza di risparmiare nel 2016, dopo aver tagliato la spesa pubblica di 7 miliardi quest’anno e 18 l’anno prossimo.
La sequenza 7-18-34, a quanto pare, spaventa Renzi e i suoi. Non solo perché siamo sotto elezioni, e parlare di tagli di spesa pubblica ad appena 60 giorni dal voto può danneggiare il partito del premier, ma anche perché alcuni tagli ventilati da Cottarelli, ad esempio quelli alle pensioni superiori a 2500 o 3000 euro mensili lordi, appaiono davvero sorprendenti: come si fa a considerare ricco, e quindi soggetto a un «contributo di solidarietà» (che brutta e ipocrita espressione…), un pensionato che incassa 2000 euro netti al mese, e nello stesso tempo considerare povero, e quindi da aiutare con uno sgravio Irpef, un lavoratore dipendente che di euro al mese ne guadagna 1500?
Dunque Renzi frena. Secondo alcuni (Federico Fubini venerdì su Repubblica) sarebbe orientato a tagli di «soli» 20-25 miliardi, meno di quanti ne aveva programmati il timido governo Letta.
Secondo altri, più maliziosi, la vera entità dei tagli che Renzi si appresta a mettere in cantiere, specie riguardo alle pensioni del ceto medio, la conosceremo solo dopo le Europee, quando non ci saranno più appuntamenti elettorali importanti alle porte.
Che cosa dobbiamo pensare?
Non lo so, perché delle vere intenzioni del premier (ammesso che esistano) non ho la minima idea. Però, avendo studiato per anni gli sprechi della Pubblica amministrazione, ho un’idea di quanto grandi essi siano e del perché sarà impossibile eliminarli a breve.
Cominciamo dalle cifre. La spesa pubblica, se trascuriamo gli interessi sul debito e le pensioni vere e proprie (che sono retribuzioni differite), ammonta a circa 500 miliardi. Questa cifra include sia la spesa sociale in senso stretto (sanità, scuola, assistenza, ammortizzatori sociali) sia le spese generali di funzionamento di qualsiasi stato moderno (difesa, giustizia, carceri, amministrazione, trasporti, infrastrutture). La stragrande maggioranza degli studi che hanno provato a stimare l’entità degli sprechi in uno o più di tali settori hanno riscontrato tassi di spreco medi nazionali compresi fra il 15% e il 30%. Tali tassi, però, variano enormemente da territorio a territorio, diciamo da un minimo del 5%, tipicamente riscontrabile per diversi servizi erogati in Lombardia e in Veneto, fino al 50%, tipicamente riscontrabile in molte (non tutte) le regioni meridionali. Complessivamente, una stima prudente del tasso medio di spreco a livello nazionale, intendendo con spreco tutto quel che si spende in più rispetto ai territori più efficienti, si può situare intorno al 20%. In concreto significa che, ogni anno, buttiamo dalla finestra più o meno 100 miliardi di euro, dove «buttare dalla finestra» significa che potremmo produrre gli stessi servizi spendendo 400 miliardi anziché 500 o, alternativamente, che con la medesima spesa di prima potremmo ampliare i servizi di circa il 20%: più asili nido, più politiche contro la povertà, migliori ospedali, migliori scuole e così via.
Se ci fermiamo fin qui la conclusione è scioccante: altroché troppi tagli, 34 miliardi è appena un terzo di quel che si potrebbe tagliare! Dunque Renzi dovrebbe tagliare di più, non di meno di quel che Cottarelli ipotizza.
C’è un «però» grande come una casa, tuttavia. Tagliare senza ridurre i servizi è difficile, difficilissimo (su questo, e fino a questo punto, i sindacati hanno perfettamente ragione). Si può fare, ma solo a tre condizioni, nessuna delle quali è attualmente rispettata, e l’ultima delle quali è indigeribile per i sindacati.
Prima condizione (studi macro). Ci vogliono studi di settore, servizio per servizio, articolati territorialmente almeno a livello regionale, per individuare le «migliori pratiche» (le cosiddette best practices) e stimare il tasso di spreco di ogni territorio, che si può ricavare da un confronto sistematico, in termini di costi e benefici, con il territorio meglio organizzato. Bisogna, in altre parole, continuare il lavoro meritoriamente iniziato dalla Commissione Muraro (Commissione tecnica per la finanza pubblica), insediata nel 2007 da Padoa Schioppa e malauguratamente sciolta da Tremonti nel 2008, dopo poco più di un anno di lavoro. Non è questo, a quel che è dato conoscere, il lavoro che sta facendo il Commissario Cottarelli. Eppure nessuna riduzione degli sprechi è possibile in Italia se non si parte da studi macro ben fatti e da obiettivi di risparmio territoriali.
Seconda condizione (studi micro). Una volta individuate le inefficienze di uno specifico servizio e la loro distribuzione territoriale, occorrono studi molto precisi e dettagliati per passare dalla individuazione dell’entità complessiva degli sprechi alla loro eliminazione in un dato territorio. Quando il governatore Cota mi chiese di dare una mano a razionalizzare la spesa sanitaria in Piemonte, non se ne fece nulla perché lui voleva risultati in pochi mesi, mentre io ritenevo che un piano che non peggiorasse il servizio ai malati richiedesse almeno 2 anni di duro lavoro di un’équipe di decine di medici, infermieri, sociologi, economisti, eccetera. Il governatore della mia regione aveva commesso, a mio parere, il medesimo identico errore di Renzi e di tutti i premier che lo hanno preceduto: quello di sbarcare al governo senza avere né un’analisi, né piani operativi pronti, né la consapevolezza che, se li si intende costruire da zero, bisogna avere la pazienza di aspettare 2-3 anni.
Terza condizione (comando). Una volta capito che un determinato servizio in un dato territorio «spreca», poniamo, 100 milioni di euro, e che per ridurre lo spreco bisogna intervenire in determinati, specifici, punti del sistema di erogazione del servizio, manca ancora una condizione fondamentale, quella che in un libro di qualche anno fa Giulio Tremonti ebbe a chiamare il «comando» nella Pubblica amministrazione. Occorre, in altre parole, che ci sia qualcuno che abbia sia la competenza sia il potere per riorganizzare il servizio, e non solo per imporre tagli di spesa. Oggi non esiste praticamente alcun servizio erogato dalla Pubblica amministrazione in cui un dirigente informato e motivato abbia un effettivo potere di riorganizzazione. E questo per la semplice ragione che chiunque provi a mettere le mani davvero su mansioni, orari di lavoro, trasferimenti, ruoli e gerarchie, invariabilmente incontra la più o meno sorda resistenza di tutti, dai sindacati che preferiscono tutelare i propri iscritti piuttosto che difendere gli utenti, ai singoli lavoratori che non esitano a ricorrere alla magistratura pur di evitare qualsiasi decisione che non gradiscono.
Purtroppo nessuna delle tre condizioni precedenti è soddisfatta, per adesso. Il lavoro della commissione Muraro è incompleto e in ogni caso andrebbe aggiornato. Di studi analitici se ne conoscono pochissimi, mentre ce ne vorrebbero diverse centinaia. Quanto a ristabilire un minimo di «comando» nella Pubblica amministrazione, ne siamo lontani anni luce. A queste tre difficoltà, ne andrebbe poi aggiunta un’altra, di tipo politico generale, e cioè che una spending review che volesse fare sul serio non potrebbe nascondere tre fatti su cui i governanti, chiunque essi fossero, hanno sempre preferito sorvolare: che il grosso degli sprechi e delle inefficienze nell’erogazione dei servizi ha luogo nel Mezzogiorno; che spendiamo ogni anno 10 miliardi per false pensioni di invalidità; che almeno un terzo dei «poveri» che usufruiscono di esenzioni varie, dai ticket sanitari alle tasse universitarie, sono finti poveri, che evadono il fisco o autocertificano il falso.
Conclusione?
Nessuno, in Italia, riuscirà mai ad azzerare 100 miliardi di sprechi della Pubblica amministrazione. Sarebbe già molto che un governo riuscisse a eliminarne la metà, diciamo 50 miliardi, ossia un po’ di più di quello che Cottarelli ha ipotizzato per il 2016. Per farlo, però, occorrerebbe che fossero soddisfatte le condizioni che ho ricordato. Finché non lo saranno tutte e tre, dalla più facile (la prima) alla più difficile (la terza), è inutile illudersi. Se 34 miliardi di tagli saranno, scordiamoci i servizi. E se vogliamo salvare i servizi, scordiamoci i 34 miliardi di tagli.
GIANNI PETRATTI
RispondiEliminaBello, però c'è un passo inquietante: si parla di 100 miliardi di possibili tagli, e di risparmi così ottenuti andrebbero devoluti metà al taglio del debito, metà al miglioramento dei servizzi, cioè andrebbero spesi meglio. Quindi nessuna riduzione delle tasse... Non ci siamo.
Una mera ipotesi. Che avrebbe il pregio se non altro di vedere impiegati in modo migliore delle risorse. Poi le percentuali possono cambiare, tenendo però conto che, giusto o no, il fronte antitasse (cui faccio parte) NON ha la forza di imporre che tutte le risorse EVENTUALMENTE (che Ricolfi spiega bene come si tratta di impresa impossibile, per gli andazzi conosciuti) recuperate dai taggli vadano a diminuire le tasse. Ostellino richiama spesso il principio di "realtà".
EliminaGIANNI
EliminaCerto, la realtà dice che la spesa non viene mai tagliata ma anzi, aumentata, e con essa la pressione fiscale. Ciò nonostante, non mi piace la mera ipotesi ricolfiana.
Sicuramente quello che avviene è, purtroppo, quanto tu ricordi Gianni. Però non avviene per un destino cinico e baro, bensì per una prevalenza di forze politiche e sociali - non solo i partiti - che scelgono quella strada. Il Partito della Spesa Pubblica è fortissimo e assolutamente trasversale. Immaginare una inversione ad U a me sembra impossibile. Si prova allora a ipotizzare dei correttivi migliorativi. Alternativa è l'emigrazione, C'è chi sogna la secessione, ma da noi nemmeno un serio federalismo siamo riusciti a far passare (che pure resterebbe anche quest'ultima una strada da percorrere).
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