venerdì 4 aprile 2014

LA MANO DI DRAGHI E LA SPERANZA CHE ANCHE L'OCCUPAZIONE MIGLIORI

Mario Draghi al Forum Economico Mondiale nel 2013
Fino al 31 ottobre 2019 almeno sul fronte BCE sto abbastanza sereno, che fino a quella data Draghi ne resterà il Presidente. Peccato che a quel punto avrà 72 anni, temo tanti per un ingresso in politica, anche se chissà, come Presidente della Repubblica....
Oggi TUTTI ammettono che se la speculazione finanziaria ha finito di tormentare - almeno dall'estate 2012 a oggi - i debiti sovrani europei, il merito è del Presidente italiano e del suo "whatever it takes" ,  "faremo ciò che è necessario" per difendere l'Euro e l'Eurozona. Bastò. Che le cose dette sono diverse ANCHE in relazione a CHI le dice. 
I due "Mari", Monti e Draghi, assunsero i loro incarichi nello stesso periodo : novembre 2011. Lo spread era ben oltre quota 500. Dopo 7 mesi di cura montiana sempre lì stava...alla faccia delle previsioni di gente come Letta e Buttiglione ( il primo è finito pugnalato alle spalle dai suoi, il secondo lo cercano a chi l'ha visto). 
Come detto, ci volle l'intervento di Draghi, e lo spread inziò a scendere senza più impennarsi. Oggi è tornato ai livelli del 2010, sotto quota 170. Se sento Monti o i quattro gatti montiani rimasti attibuirsene il merito, sparo. 
La Germania ha sofferto molti mal di pancia con Draghi a Francoforte ma oggi anche la Bundesbank pare meno rigida e ostruzionistica se è vero che la possibilità di acquisto di titoli pubblici o privati, finalizzato a favorire la liquidità del sistema,    non è più visto come un tabù assoluto. Forse è il timore della deflazione, che è un male da combattere esattamente come l'inflazione, per le sue conseguenze di decrescita e disoccupazione, ma resta che il QE in salsa europea non è da escludersi. E anche stavolta, pare, il semplice fatto di accennarlo porta brio ai mercati. 
In questo quadro positivo, arriva il solito articolo di Fugnoli, esperto di cose economiche e finanziarie, che apre i cuori alla speranza  affermando che anche la situazione occupazionale è destinata a migliorare (peggiorare, sarebbe tragico, che già così...), con gli Stati Uniti destinati a recuperare entro il 2016, dopo quasi dieci anni, la piena occupazione. Siccome in queste settimane è di moda sperare che gli annunci (di Renzi) si realizzino, possiamo ben farlo per questa rosea previsione di Fugnoli.
Buona Lettura





 L’ATTIMO DA COGLIERE  
Crescita e politiche espansive, lo stato di grazia dei mercati


Alla fine del 2016, fra meno di due anni, l’America sarà ritornata alla piena occupazione. In alcuni settori e, in generale, per le posizioni più qualificate, si farà addirittura fatica ad assumere e si dovrà cominciare a offrire retribuzioni più alte.
Visto dall’Europa mediterranea è un quadro da sogno, ma a ben vedere anche l’America ci avrà messo nove anni per tornare al pieno impiego, il doppio di quello che fu necessario dopo la recessione dei primi anni Novanta e il triplo di quello che occorse dopo quella del 2001.
L’età dell’oro del pieno impiego furono gli anni Cinquanta e Sessanta. La fine della guerra e la smobilitazione dei soldati avevano fatto salire la disoccupazione al 5.9 per cento nel 1948, ma già nel 1951 si era scesi al 3.3 e nel 1953, nonostante la recessione di quell’anno, si toccò il minimo del 2.9. Negli anni Sessanta il livello più basso fu raggiunto nel 1969 con il 3.5 per cento di disoccupati.
Il pieno impiego non provocò inflazione, nei due decenni felici, perché la produttività in forte crescita fu in grado di assorbire gli aumenti salariali. Il meccanismo si guastò quando il forte aumento della spesa pubblica per il Vietnam, per la corsa allo spazio e per finanziare la Great Society e il costo dell’assistenza pubblica fecero cadere la produttività. La crisi petrolifera del 1973 dette il colpo di grazia, ma l’inflazione salariale era già partita da tempo.
Dopo il picco al 9.8 nel 1982, furono necessari 18 anni per rivedere la disoccupazione al 4 per cento nel 2000. Il resto è storia nota. Il 4.6 del 2007 divenne il 9.6 del 2010 e il 6.7 di oggi. Alla fine del 2016 saremo molto vicini al 5 per cento.
Il 5 per cento, come abbiamo visto scorrendo rapidamente la storia degli ultimi settanta anni, non porta automaticamente all’inflazione salariale e l’inflazione salariale, se bilanciata da un aumento della produttività, non porta di per sé a un aumento generalizzato dei prezzi. Questa volta, però, ci sono alcune incognite. La crescita della produttività è molto bassa in tutto il mondo e non accelererà fino a quando non riprenderanno gli investimenti. Non tutti gli investimenti, naturalmente, ma quelli espressamente finalizzati a risparmiare lavoro.
Dalla Grande Recessione a oggi le imprese non hanno avuto molti stimoli per investire in questa direzione. Una parte ha continuato a delocalizzare in Asia o in Messico, mentre chi ha continuato a produrre in Europa o negli Stati Uniti ha potuto godere di un grande serbatoio di manodopera inutilizzata disponibile a prezzi decrescenti.
Oggi l’unica area in una situazione di pieno impiego è quella tedesca. Non è un caso che la grande industria, in Germania, stia avviandosi verso un massiccio programma di investimento che ne ridurrà per qualche anno la profittabilità. Meno noto è che anche in Giappone ci sono qua e là segni di tensione nel mercato del lavoro. I programmi di opere pubbliche, che l’Abenomics aveva inizialmente previsto per il secondo trimestre appena iniziato, slitteranno di alcuni mesi per la difficoltà nel reperire la manodopera necessaria. Anche per questa ragione Abe sta provando a rompere un tabù  culturale proponendo di aprire le porte a 200mila immigrati all’anno. Dato l’invecchiamento veloce della popolazione in tutta l’Asia orientale questa proposta, se anche venisse accolta, non sarebbe così facile da mettere in atto.
Quanto all’America, come abbiamo visto, alla fine del prossimo anno le imprese si troveranno a dovere cominciare a pagare di più le loro risorse umane e a spendere in tecnologia che ne possa sostituire almeno una parte. La pressione sui margini sarà inizialmente molto contenuta ma crescerà nel tempo. Le risorse dedicate agli investimenti saranno almeno in parte distolte dal riacquisto di azioni proprie e anche per questa via rallenterà la crescita degli utili per azione.
Quello che rende affascinante il momento attuale per chi investe è che, pur cominciando finalmente a intravedersi un’accelerazione sincronizzata della crescita globale, i policy maker sono schierati a favore di politiche espansive perfino di più di quanto non lo fossero nelle fasi più buie della crisi. La frustrazione per la bassa crescita e il timore di gettare al vento gli sforzi di questi anni non li inducono solo a tenere il piede sull’acceleratore, ma a dare addirittura più gas al motore. Avendo fatto trenta, vogliono a tutti i costi fare trentuno.
Lo stato di grazia dei mercati, azionari ma anche obbligazionari, si spiega con la prospettiva simultanea di un’accelerazione imminente della crescita e con la possibile e probabile adozione di politiche espansive ancora più aggressive, come il Qe in Europa.
L’anno scorso, come ricorda Richard Koo, il 70 per cento del grande rialzo della borsa di Tokyo si è realizzato nelle settimane tra il preannuncio dell’Abenomics e l’effettiva adozione delle misure previste nel piano. Anche i rialzi di Wall Street in corrispondenza delle tre operazioni di Quantitative easing si sono prodotti nella fase del preannuncio e nelle prime settimane di adozione effettiva.
L’Europa si trova oggi in una situazione analoga. Rimandando l’attuazione del Qe la Bce non delude i mercati, ma li mantiene in uno stato di eccitazione. Annunciando e non facendo si tiene aperte tutte le possibilità e conserva intatte le sue munizioni. Con l’Omt questa strategia ha funzionato in modo eccellente ed è chiaro il tentativo di replicarla adesso con il Qe.
Questo momento favorevole si presta a strategie diverse a seconda dell’orizzonte temporale di chi investe.  


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