Essere coerenti è un'utopia, un'impresa impossibile da realizzare pienamente. Come tante altre. Essere giusti, per esempio, imparziali, obiettivi e così via. Rinunciare in partenza allora ? No, perché muoversi secondo QUELLE linee è cosa buona, per sé, innanzi tutto, e anche per chi ci circonda.
In Politica però veramente NON ce la si può fare. Lo vedo palesemente in alcuni miei amici, che a volte penso siano a rischio di disturbi dell'identità, costretti come sono oggi a dire bianco, domani nero, e poi di nuovo bianco ! Il doppio pesismo, lo strabismo, figli dell'opportunismo del momento, da quelle parti sono la regola. Il problema si fa più serio perché i politici vivono anche di retorica e di propaganda ! Quindi gli Alti Principi sono spessissimo evocati, dal palco, col ricorrente risultato di fare figure veramente imbarazzanti.
Guardiamo per esempio la tutela dei lavoratori e l'articolo 18, quello nefando dello Statuto del 1970 (che poi, in senso letterale, non sarebbe questa tragedia, ma l'uso che se n'è fatto e se ne fa, ne imporrebbe la cancellazione anche dalla memoria collettiva). Ebbene, notoriamente i guardiani armati di questa norma sono la Sinistra e i Sindacati, specie nelle loro colorazioni più rosse.
Il lavoratore non si licenzia MAI, che la Giusta Causa o il Giustificato Motivo sono oggetto di verifica talmente occhiuta e spesse demenziale da parte dei magistrati del lavoro che sono rarissimi i casi in cui la disciplina viene considerata applicabile (anzi, oggi un po' accade, che i pretori d'assalto non ci sono più, ma un tempo era praticamente inutile resistere in giudizio all'azione del lavoratore).
Dopodichè i tempi cambiano, le infinite risorse economiche garantite da finanziamenti e debito pubblici iniziano a languire, e proprio gli ayatollah dell'articolo 18 finiscono per disapplicare la tutela dei lavoratori, quando sono LORO dipendenti. Intanto, ottenendo che per partiti e sindacati la norma non valga (!!!!) e comunque operando in modo talmente disinvolto che manco i padroni delle ferriere.
E' successo già in varie occasione col personale sindacale, CGIL compresa, e adesso iniziano anche a via del Nazzareno.
Qui peraltro, da quanto si apprende nell'articolo del Corriere della Sera che segue, il problema è acuito dal caos legato alla nascita del PD con il mantenimento in vita però di DS e Margherita, col pasticcio - e le scappatoie - che potete di seguito leggere.
Una brutta storia, dove alla fine tutti girano le spalle, approfittando che la giustizia, per fare il suo corso, impiega MOLTO tempo, e a volte non arriva mai.
Licenziato in tronco
nel limbo tra
Pd e Ds:
l’articolo 18 non vale
Vent’anni a lavorare per un partito, e questo è il ringraziamento: licenziato senza preavviso. Magari ci sta pure, direte. Le casse dei partiti si stanno prosciugando ed è questo il risultato inevitabile. Se non fosse che la storia di Carmine De Guido, un «pollo di allevamento” (come lui stesso si autodefinisce) del Pds, poi dei Ds, e infine del Partito democratico, con i tagli ai costi della politica c’entra fino a un certo punto. Tutto comincia infatti due anni fa, nel febbraio del 2012, quando ancora la scure doveva abbattersi sui rimborsi elettorali. È allora che arriva a Taranto, dove De Guido in quel momento presta servizio per il Pd, una telefonata del tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti: il quale annuncia al Nostro la chiusura di un rubinetto rimasto aperto, dice, anche troppo a lungo. Gli spiega che Ds e Pd sono due soggetti diversi, e il primo non può formalmente continuare a pagare gli stipendi per il secondo. «Guadagnavo 1.300 euro al mese. Il mio stipendio si è interrotto da un giorno all’altro senza che mai sia arrivata la lettera di licenziamento», racconta De Guido.
La ragione è forse che quella lettera nessuno la può, o la vuole firmare. E qui si toccano con mano le conseguenze assurde del metodo usato per far nascere il Partito democratico: non con una fusione fra i Ds e la Margherita che sarebbe stata la strada più logica (e forse avrebbe anche impedito certi abusi come quelli emersi nel caso che ha coinvolto l’ex tesoriere margheritino Luigi Lusi), bensì creando un soggetto nuovo e lasciando in vita i due partiti fondatori. Di fatto morti, ma giuridicamente ancora in vita.
In una frazione di secondo, nel febbraio del 2012, De Guido si ritrova figlio di nessuno. Non è più riconosciuto come dipendente dei Ds, che non esistono più, ma nemmeno risulta in forza al Pd, per cui invece lavora. Dice: «Avevo formale contratto di lavoro con la federazione di Taranto dei Ds ma i soldi arrivavano da Roma. Il passaggio dai Ds al Pd non è mai stato contrattualmente formalizzato, ma nei fatti lavoravo per il Partito democratico. Tant’è che il mio posto di lavoro era la sede della federazione provinciale del Pd. Lo sapevano tutti, da Sergio Blasi (l’ex segretario regionale, ndr) al suo successore Michele Emiliano».
Nel partito, De Guido non è proprio un ragazzino di bottega. A giugno compie 49 anni e per quasi tredici, dal marzo del 1993 al dicembre 2005, ha lavorato al Bottegone. Era uno di quelli della sinistra giovanile di Stefano Fassina e Nicola Zingaretti e si occupava della sicurezza urbana. Poi nel 2006 viene trasferito a Taranto. Ha in tasca un regolare contratto della federazione diessina, dove c’è scritto: «funzionario politico». Il passaggio al Pd è impalpabile. Tanto per lui quanto per suo fratello Vincenzo, che è addirittura segretario della sezione Gramsci-città vecchia, prima dei Ds e poi dei democratici. L’attività politica continua, insomma, come se nulla fosse accaduto: nel 2009 De Guido ha l’incarico di seguire la campagna elettorale di Elena Paciotti per le europee.
Fino a quel famoso giorno di febbraio. La cosa però non finisce lì. «Nell’agosto del 2012», continua De Guido, «c’è un incontro a Bari nella stanza di Blasi, con i tesorieri provinciali e regionali, e anche il tesoriere nazionale Antonio Misiani. Il tuo problema sarà risolto, dicono. Idem mi dice Fassina. E poi Emiliano. Ma alle rassicurazioni non seguono i fatti». Sfinito, fa una causa di lavoro contro la federazione diessina di Taranto e il Pd provinciale e a luglio del 2013 il giudice impone il reintegro di De Guido. Motivo: il licenziamento verbale non è ammesso. Però non succede niente, nonostante il partito venga inondato dalle sue lettere: «Ho scritto a Massimo D’Alema, Pier Bersani, Sposetti, Fassina. All’attuale responsabile degli enti locali Stefano Bonaccini. Ho scritto anche a Renzi. Tutto inutile». Rinuncia persino al reintegro, nella speranza di incassare almeno gli arretrati e la liquidazione. Anche perché se venisse reintegrato (e poi da chi, dai Ds che non esistono più o dal Pd?) potrebbe a quel punto scattare un licenziamento con tutti i crismi, che in base a un provvedimento del 1990 esclude i partiti dall’applicazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Con il risultato di subire, oltre al danno, anche la beffa. Per tutta risposta la sentenza del giudice del lavoro viene impugnata dalle controparti. Mentre scattano i pignoramenti alla sede tarantina del Pd. Alla domanda se abbia ancora la tessera del partito in tasca, De Guido risponde che non è riuscito a rompere del tutto, al punto che per sei mesi ha anche dato una mano alla presidente regionale Anna Rita Lemma. Quanto a quella tessera, sostiene di non averla più rinnovata. Dice di avere soltanto quella di un’associazione da lui fondata: «Le Belle città». Inguaribile ottimista.
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