venerdì 16 maggio 2014

CARO FERRARELLA, UN CONTO E' DIRE IL FALSO, UN ALTRO E' OMETTERE. NELLA GUERRA DELLA PROCURA I TIFOSI SI RICONOSCONO SUBITO


Luigi Ferrarella è affezionato alla Procura di Milano, cui è grato forse per motivi professionali, sicuramente ideali. Pertanto soffre molto del'attuale guerra intestina ed è evidente per chi batte il suo cuore. Allo stesso tempo non arriva a smentire quelle che gli risultano essere i fatti, così come dallo studio della carte e delle dichiarazioni gli sembrano emergere, e quindi non li tace ( e in questo si rivela migliore della maggior parte dei suoi colleghi). Per cui, quando Bruti Liberati e la Boccassini dichiarano che c'è stata una circostanza- esattamente il 25 marzo -  in cui due squadre investigative di finanzieri  si sono incrociate sullo stesso obiettivo, causa l'iniziativa non autorizzata del Procuratore Robledo, dicono una cosa FALSA. E la GdF , nello smentire che sia mai occorsa una situazione del genere, dà ragione al procuratore aggiunto. Però, subito il giornalista aggiunge : non si è verificato, però POTEVA, e Robledo pecca di omissione quando non narra che aveva intrapreso iniziative personali senza rivelarle al capo, ben sapendo che su certe persone già esistevano altre indagini. 
Questo, caro Ferrarella, non può essere messo sullo stesso piano, semmai conferma che a Milano le cose funzionavano davvero male, con contrasti portati avanti a dispetto dell'inficiamento delle indagini.
Ma dire il FALSO a quelli del CSM che stanno cercando di fare luce sulle reciproche accuse dei procuratori milanesi, e omettere NON è la stessa cosa. 
A proposito dell'inchiesta del Consiglio Superiore, il sindacato delle toghe, per bocca del Dr. Sabelli, si raccomanda, per non dire pressa,  perché il tutto sia celere, che , perdurando gli accertamenti, la procura di Milano è sottoposta a delegittimazione ed attacchi strumentali...
Già, è quello che succede sempre agli ALTRI, con indagini interminabili e processi ancor di più...

E' brutto quando si sta dalla  parte dei normali...



quelle Tre Versioni sul Doppio Pedinamento 
(che Non c’è Stato)
Ma Robledo fece indagini senza
avvisare il capo 
 

MILANO — Sono magistrati invece di samurai, e la relatività delle contrastanti versioni sceneggia un delitto anziché un pedinamento nell’inchiesta Expo, ma ormai è clima da «Rashomon» in Procura a Milano, sebbene sia Edmondo Bruti Liberati sia Alfredo Robledo non appaiano all’altezza di Kurosawa nel modo in cui presentano al Csm le proprie divergenti tesi sul «doppio pedinamento»: un fatto che si immagina agevole da accertare storicamente, e che invece per Bruti e il suo vice Boccassini ci sarebbe stato e avrebbe costituito un palese caso di «intralcio» di Robledo alle loro indagini, mentre per Robledo non ci sarebbe mai stato e anzi costituirebbe una prova delle «affermazioni del procuratore inveritiere e fuorvianti e radicalmente inventate».
Ricostruita dal basso, però, la storia risulta un po’ diversa da entrambe le prospettazioni. È martedì pomeriggio 25 marzo, e in Procura le indagini su Expo sono due. Una è nella fase della richiesta di arresto di 19 persone tra cui il general manager di Expo 2015 Angelo Paris e il direttore generale di Infrastrutture Lombarde Antonio Rognoni: è stata firmata il 5 marzo dai pm titolari Gittardi-D’Alessio, dal procuratore aggiunto Boccassini capo di Gittardi nel pool antimafia, dal procuratore Bruti Liberati, ma non dall’aggiunto Robledo (capo di D’Alessio nel pool antitangenti), che non concordava sulla sostenibilità in quel momento di due delle quattro imputazioni mosse a Paris, successivamente integrate da ulteriori elementi e poi tutte accolte nell’arresto che sarà concesso l’8 maggio dal gip Fabio Antezza. L’altra è l’inchiesta sulle gare per i servizi legali di Infrastrutture Lombarde condotta dai pm D’Alessio-Pirrotta con Robledo, che 5 giorni prima, il 20 marzo, aveva già visto il gip Ghinetti accogliere la richiesta di arresto di Rognoni.
Quel 25 marzo, da una intercettazione, gli investigatori di Robledo (finanzieri del Gruppo Tutela Mercati della Gdf) apprendono di un appuntamento forse interessante in un bar di Milano alle 15.30, e piazzano quindi alcuni agenti in vista del pedinamento. Verso le 15 l’attenzione dei finanzieri in attesa è attratta da una coppietta che sembra strana. Telefonano in ufficio al loro ufficiale e gli espongono il dubbio che siano magari due colleghi, sempre finanzieri ma della sezione di polizia giudiziaria della Procura, quella che lavora con Boccassini-Gittardi-D’Alessio all’altra indagine. L’ufficiale va allora subito sul posto per guardare in faccia la coppia, e si toglie così il dubbio che siano colleghi sotto copertura: non lo sono. Un’ora e mezza dopo, quando ormai è chiaro che gli interlocutori dell’intercettazione hanno cambiato idea per conto loro e non verranno più al bar, per scrupolo l’ufficiale telefona al suo omologo della sezione di polizia giudiziaria della Procura e gli domanda se abbia uomini fuori per qualche servizio: no, gli viene risposto, non abbiamo niente in corso.
Dunque, quando ora il pm Boccassini dice al Csm che i suoi investigatori «hanno fatto tremila passi indietro e appena visti i colleghi che erano sullo stesso posto se ne sono andati», e quando il procuratore Bruti Liberati scrive al Csm che «solo la reciproca conoscenza del personale che si è incontrato sul terreno ha consentito di evitare» che quel «surreale» doppio pedinamento arrecasse «gravi danni alle indagini», le affermazioni non paiono del tutto aderenti alla realtà dei fatti materiali e sembrano un passo più lungo della gamba nella contrapposizione con Robledo: giacché non risulta che il 25 marzo vi siano mai stati due pedinamenti fisicamente in corso, né due squadre di investigatori evitatesi in extremis sullo stesso pedinato, né una delle due che si sia per fortuna ritirata per tempo.
Tuttavia è vera un’altra cosa. E cioè che, a partire dalla telefonata quel 25 marzo tra i due finanzieri di squadre diverse, i pm Boccassini-Gittardi-D’Alessio (che indagano su Paris e Rognoni) apprendono che Robledo, senza averlo detto al capo Bruti Liberati, nella propria inchiesta su Rognoni sta facendo pedinamenti anche su persone che sa essere già sotto il controllo degli altri suoi colleghi, e si pongono il problema di prevenire incidenti. Così tre giorni dopo, il 28 marzo, Bruti scrive a Robledo una lettera in cui gli contesta di adottare iniziative senza informarlo e gli intima di interrompere sovrapposizioni. Il giorno seguente si trova un punto di equilibrio: Bruti lascia a Robledo la gestione dei pedinamenti di quella persona, a condizione che Robledo (come poi farà) ne riferisca gli esiti anche a beneficio dell’altra inchiesta.
Dunque, quando ora Robledo valorizza al Csm il rapporto della Guardia di Finanza milanese che dà atto che «nel corso delle attività di osservazione e controllo svolte dal personale di questa articolazione non si sono registrati episodi di sovrapposizione operativa con personale della Sezione di polizia giudiziaria presso la Procura», l’affermazione, in sé vera, sconta però una dose di reticenza rispetto al rischio potenziale, esistito davvero per qualche settimana, che in teoria investigatori di due indagini diverse potessero prima o poi incrociarsi sullo stesso bersaglio da pedinare. Non a caso ieri Bruti Liberati, nella nuova missiva con la quale conferma al Csm il proprio punto di vista, rimarca che Robledo con la lettera e il rapporto GdF dell’altro ieri al Csm avrebbe implicitamente ammesso di aver, nel mese di marzo, operato pedinamenti anche di persone dell’altra inchiesta senza informarne il procuratore capo.
Luigi Ferrarella

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