domenica 18 maggio 2014

L'ANTI POLITICA DI GRILLO VUOLE PIU' POLITICA, COLLETTIVISTA. AIUTO !


Di fronte al fenomeno del grillismo, esploso con il successo nelle ultime politiche, dove conquistò il 25% dei voti, partito più votato in Italia,  non confermato in nessuna delle tornate elettorali amministrative tenutesi successivamente, con pessimi risultati in Friuli Venezia Giulia, a Roma (dove pure erano andati forte a febbraio 2013) , senza osare presentarsi in Sardegna, e ora tornato in auge ( a conferma per me che senza Grillo questi prenderebbero forse il 4% dei voti) nelle previsioni per le europee di domenica prossima, ho trovato originale e interessante l'analisi di Orsina, nell'editoriale odierno della Stampa. 
In sostanza lo storico - questa è la specializzazione dell'autore dell'articolo - fa osservare che l'anti politica degli ortotteri non ha come obiettivo "meno politica", ma in realtà di più ! 
A Grillo non piace nulla dell'esistente, ma non che la sua vulgata sia quella di più libertà meno Stato, per dire. No : via QUESTO Stato, QUESTI partiti, ma poi tutto deve essere controllato e gestito dalla collettività, tornata padrona del proprio futuro...Come ? Attraverso la Rete, lo strumento principe della Democrazia Diretta, la grande utopia trasposta dalla mitica Atene (una città che al massimo del suo fulgore ebbe forse 150.000 abitanti, un medio quartiere di Roma odierno...). Francamente mi sembra una sciocchezza,  e cito solo i primi due motivi banali che mi vengono in mente : la negazione di qualsiasi competenza e l'ignoranza della rissosità condominiale, per la quale in Italia, questo tipo di democrazia non funziona nemmeno a livello di piccole realtà come può essere un condominio. 
Grillo ha poi deciso, per non farsi mancare nulla a livello di solleticazione della parte peggiore della pancia della gente, di cavalcare il giustizialismo, arrivando addirittura a dire che i magistrati che hanno ripreso a far tintinnare manette, come nel caso dell'expò, non devono temere ostacoli, che ci saranno loro, gli ortotteri a "tutelarli". Ci mancava la guardia civica delle toghe.
Orsina però spiega bene come il fallimento - la grande crisi e la successiva recessione questo dicono - di altre politiche, come negli anni 80 la grande fiducia nel mercatismo, poi la stagione dei tecnocrati, in Europa e quindi in Italia (Monti e il suo governo tecnico), abbiano fatto ricrescere la voglia di protagonismo di certe fasce della popolazione, con il collettivismo che aveva imperato verso la fine degli anni 60 e per il decennio successivo nel secolo scorso. 
Efficace l'immagine di Orsina : non è piacevole affidarsi ad un chirurgo, però se questo ispira fiducia, è più facile digerire la cosa. Ma se così non è, allora la tentazione del fai da te torna propotente. 
Fuor di metafora, l'anti politica di Grillo in realtà è una "politica anti", con il sistema attuale da abbattere e da sostituire col suo.
Alternativa, comunque la si veda, desolante.  

Politica-anti la battaglia di grillini & c.

Per definire il movimento 5 stelle si ricorre spesso alla categoria dell’antipolitica. La definizione è corretta, benché vaga, se guardiamo ad alcuni aspetti del grillismo: l’ostilità verso i professionisti della politica e il giustizialismo; l’impazienza per le complessità dell’amministrazione; il disinteresse per le culture politiche tradizionali. Se lo si osserva da un altro punto di vista, tuttavia, il movimento di Grillo può essere compreso meglio con la categoria non dell’antipolitica ma della «politica-anti». 
I 5 stelle insomma non vogliono meno politica, ne vogliono di più. Ma questa loro urgenza, nell’attuale momento storico, non possono declinarla che in negativo. 
L’ultima grande ubriacatura di politica che abbia vissuto l’Occidente data dalla seconda metà degli Anni Sessanta. Dalla fine del decennio successivo, e con un’accelerazione dopo il 1989, è cominciata una stagione di riflusso che ha visto gli spazi della politica compressi da tre ondate tecnocratiche distinte ma collegate. La prima ha spinto in alto la fiducia nel mercato, e di conseguenza ha gonfiato il ruolo dei tecnici dell’economia. La seconda ha sviluppato le istituzioni internazionali, a partire dall’Unione Europea, accrescendo il potere dei tecnici della globalizzazione – una parola, questa, che comincia a essere utilizzata proprio alla fine degli Anni Settanta. La terza ondata, infine, ha dato prominenza ai tecnici della tecnologie in senso stretto: mediche, fisiche, biologiche, ingegneristiche.

Era impossibile che la compressione tecnocratica della politica – e quindi l’affievolirsi negli uomini qualunque della convinzione di poter tenere politicamente sotto controllo il proprio futuro – non generasse una qualche forma di reazione, prima o poi. Sentirsi in balia dei tecnocrati è tanto poco piacevole quanto trovarsi sotto il bisturi di un chirurgo. Ancorché spiacevole, certo, lo si può ritenere benefico. Perché ciò avvenga, però, occorre che si diano almeno due condizioni: la prima, che il sapere del tecnocrate sia incontrovertibile; la seconda, che il tecnocrate funzioni. Se i tecnocrati litigano l’uno con l’altro mostrando a tutti quanto precaria sia la loro «verità», e soprattutto se la loro azione non porta miglioramenti, allora all’uomo qualunque non resterà altro che la sensazione sgradevole di aver rinunciato alla propria sovranità per nulla. 

Ora, sono esattamente queste le condizioni nelle quali ci troviamo oggi. La «verità» dei tecnocrati è naufragata nelle discordie non soltanto delle scienze sociali ma anche di quelle «dure» – si vedano i dissensi sul riscaldamento globale o anche, nel nostro Paese, il caso Stamina. Quanto ai risultati ottenuti dai tecnocrati dell’economia e della globalizzazione, basti pensare alla recessione. Appoggiandosi a questa situazione la cosiddetta antipolitica, a partire da quella grillina, ha reclamato in realtà un ritorno in forze della politica: poiché i tecnocrati hanno fallito, gli uomini qualunque devono riappropriarsi della sovranità e cercare la salvezza non nelle competenze ma nell’azione collettiva. Non è un caso che Grillo conquisti tanti voti fra i giovani, i maschi, le persone più istruite e quelle economicamente più attive. Ossia in quelle fasce dell’elettorato che più delle altre sentono l’urgenza di riconquistare il futuro e credono di esser mature a sufficienza da poterlo fare.

Fin qui la politica. Ma perché «politica-anti»? Per due ragioni. In primo luogo perché i tecnocrati avranno magari fallito, ma prima di loro aveva fallito già la politica. Le grandi ideologie novecentesche che promettevano agli uomini qualunque di riconquistare il futuro attraverso l’azione collettiva, non solo il fascismo o il comunismo ma pure la socialdemocrazia, sono defunte o moribonde – le prime due dopo aver fatto danni incalcolabili. In secondo luogo perché i processi di integrazione sovrannazionale e la dilatazione degli spazi tecnocratici sono andati così avanti che tornare indietro è pressoché impossibile – o meglio richiederebbe, per paradosso, straordinarie competenze tecniche. 

Il desiderio di riappropriarsi politicamente del proprio futuro non può allora che assumere forme apocalittiche, generare un agglomerato incoerente di esasperazioni e micro-istanze, alimentare mitologie improbabili e pericolose come la democrazie diretta della rete. Non può che diventare una politica del «no». Non può che respingere a priori come mistificazione non soltanto l’eccesso di tecnocrazia, ma pure un apprezzamento ragionevole e realistico delle competenze tecniche. Da qui il mito grillino della casalinga al ministero dell’economia. Da qui la provocazione del leader della Lega Salvini, che qualche giorno fa ha dichiarato di voler denunciare per procurato allarme chiunque ipotizzi conseguenze negative in caso di uscita dall’euro.

Per quanto si declini soprattutto al negativo, a ogni modo, la «politica-anti» un segnale chiaro non manca di darcelo. La compressione della politica avviata negli anni Settanta dalle ondate tecnocratiche ha generato frustrazione ovunque, e nel nostro Paese più ancora che altrove. Questa frustrazione va gestita, e non può esserlo che politicamente. Ritenere che comprimere gli spazi della politica equivalesse a ridurre la politica all’irrilevanza, insomma, è stato un errore grave. I tecnocrati del resto sono assai spesso drammaticamente impolitici, o addirittura antipolitici. Ben pochi di loro avranno letto Carl Schmitt, che nell’anno fatale 1929 già spiegava come il rapporto fra il conflitto politico e la neutralità tecnica non sia dato una volta per tutte, ma vada ricostruito daccapo – politicamente – ogni volta: «L’umanità europea migra in continuazione da un campo di lotta ad un terreno neutrale, e continuamente il terreno neutrale appena conquistato si trasforma di nuovo, immediatamente, in un campo di battaglia e diventa necessario cercare nuove sfere neutrali».


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