giovedì 12 giugno 2014

QUANDO ERA LA FALLACI A METTERCI IN GUARDIA DAL CALIFFATO


Io non sono uno ostile alla Real Politik e tra Mazzini e Cavour ho sempre preferito il secondo. Però ai livelli di Sergio Romano non ci potrei arrivare.
Alla luce dei fatti le guerre di Bush non hanno risolto il problema del terrorismo, non hanno pacificato e tantomeno portato la democrazia in Afghanistan ed Iraq. Questo è vero. Non fare quelle guerre avrebbe risolto il problema di OSama Bin Laden ed Al Qaeda ? Le torri gemelle vengono PRIMA delle offensive americane, e, almeno in Occidente, gli attentati da allora in America sono cessati (almeno a quanto mi consta) ed in Europa, dopo i tragici episodi delle metropolitane di Madrid e Londra, non ne ricordo altri. Certo, diversa la situazione nei paesi musulmani. Ma non credo che in Afghanistan la popolazione civile sarà contenta di tornare sotto la tirannia dei barbuti talebani, mentre in Iraq la scelta tra la dittatura di Saddam e domani quella di non so quale Califfo non mi pare brillantissima.
Insomma, Bush ci ha provato ed è andata male, ma quali sono le alternative ? Confidare che in quei paesi i dittatori "laici", cioè islamisti non fondamentalisti, riescano a conservare il potere, quantomeno garantendo una sorta di ordine "globale". E quindi meglio sarebbe stato tenerci Saddam e Gheddafi e memori di questo tifiamo Assad. 
Io non ci riesco. Capisco tutto,  il male minore, gli equilibri fragili e altre cose del genere, però è un gran brutto mondo questo che si prospetta.
Oltretutto, a Sergio Romano credo che sfugga un particolare. SENZA l' aiuto all'ONU della Russia, e sul campo bellico quello di Iran ed Hetzbollah, Assad da quel dì che era caduto, Mubarak, Ben Alì, a loro volta, autarchi graditi per questioni di "ordine" regionale, hanno comunque perso il potere, a causa di sollevazioni interne. Insomma non è che noi occidentali ce ne stiamo buoni e le cose nel mondo non succedono comunque, anzi alcune di queste finiscono per guastare il nostro sogno  di pace fondato sull'isolamento e il disinteresse.
Se è vero che è il Califfato l'obiettivo dell'estremismo islamico, non riusciremo ad evitare di farci i conti, e questo più prima che poi. 
Deridevano la Fallaci quando nel suo La Rabbia e l'Prgoglio metteva in guardia dalla pavidità occidentale, da questo pensare che attraverso la cultura dell'accoglienza e dell'integrazione si potevano tenere a bada le cose. Questi. i fondamentalisti islamici, non hanno nessuna intenzione di "integrarsi" ma di "conquistare". 
E hanno un grandissimo vantaggio rispetto a noialtri : non hanno paura di morire. 
Quindi vorrei chiedere all'ambasciatore (ex) Romano : d'accordo la real politik, ma in concreto, in che modo realistico si risolve questo problema ? Davvero vede percorribile una sorta di alleanza con l'Iran solo perché il loro fondamentalismo è diverso e confliggente con quello Sunnita ? 



La rinascita del califfato
di SERGIO ROMANO 
 
Quando decise l’invasione dell’Iraq, agli inizi del 2003, George W. Bush, presidente degli Stati Uniti, sostenne di avere due buone ragioni: il regime di Saddam Hussein nascondeva nei suoi arsenali armi di distruzione di massa e i Servizi iracheni avevano rapporti organici con Al Qaeda, l’organizzazione di Osama bin Laden che aveva lanciato un attacco terroristico contro le Torri gemelle nel settembre di due anni prima. Non era vero. Le armi non furono mai trovate e i rapporti con Al Qaeda non vennero provati. Oggi, undici anni dopo, una costola di Al Qaeda, lo «Stato islamico dell’Iraq e del Levante», ha conquistato Falluja, ha espugnato Mosul, ha costretto il governo di Bagdad a proclamare lo stato di emergenza e controlla un territorio, a cavallo della frontiera siriana, dove potrebbe risorgere il Califfato sognato da bin Laden.
Le responsabilità non sono interamente americane. Non saremmo a questo punto se la rivolta contro il regime siriano di Bashar Al Assad non avesse chiamato in Siria una legione islamista molto più numerosa e agguerrita delle cellule di Al Qaeda che operavano nella regione dieci anni fa. Ma un nucleo importante si è addestrato probabilmente nelle montagne dell’Afghanistan, dove la guerra americana, combattuta per tredici anni, non è riuscita a impedire il ritorno dei talebani; mentre altri provengono dal Pakistan, ambiguo alleato degli Stati Uniti, o addirittura dalla Libia, a un tiro di schioppo dalle nostre coste, dove gli americani, sollecitati dalla Francia e dalla Gran Bretagna, hanno abbattuto il regime di Gheddafi per lasciarsi alle spalle un Paese distrutto e ingovernabile, devastato da una guerra civile fra milizie tribali e islamiste.
Non è certamente questo che Barack Obama voleva quando pronunciò il suo generoso discorso nell’aula magna dell’Università del Cairo, all’inizio del primo mandato. Sapeva che la guerra irachena era stata un errore e nessuno più di lui sperava di archiviare la sciagurata politica di Bush per consentire al suo Paese d’imboccare una strada diversa. Ma cercò di mascherare la sconfitta con qualche successo militare, rafforzò i due contingenti americani e sperò di andarsene dall’Iraq e dall’Afghanistan dopo una decorosa, anche se temporanea, vittoria. Con il fallimento di questa ultima operazione, la responsabilità dell’insuccesso appartiene, inevitabilmente, anche all’uomo che occupa ora la Casa Bianca.
Spetterà a lui quindi, nei prossimi due anni, impedire la rinascita del Califfato. Può contare sulla collaborazione della Turchia e ha due carte, entrambe difficilmente confessabili e terribilmente scomode. È costretto a sperare che la guerra siriana non venga perduta da Assad. Deve concordare un’azione comune con l’Iran, lo Stato sciita che ha una considerevole influenza sul regime di Bagdad e un forte interesse a impedire la vittoria dell’estremismo sunnita. Ma dovrà battersi contro quella fazione della società politica americana che ha ispirato la politica di Bush e che lo detesta. I neo conservatori dicevano di volere cambiare la carta del Medio Oriente: un obiettivo, purtroppo, perfettamente raggiunto.

Nessun commento:

Posta un commento