Le giornate sono dominate dalla cronaca nera, con la rete scatenata contro gli assassini, confessi (Carlo Lissi) e presunti ( Bossetti), ma solo per la forma, ché sono veramente quattro gatti scalcagnati quelli che provano a mantenere un ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell'uomo accusato di aver ucciso Yara Gambarisio, in attesa di un giusto processo.
Per i pochi che si vogliano occupare anche d'altro, propongo questo intelligente editoriale di Ernesto Galli della Loggia, che tratta del dramma quotidiano dei migranti e del collasso delle nostre strutture d'accoglienza.
Veramente c'è qualcuno che pensa seriamente che noi si possa accogliere tutti quelli che arrivano ?
TRa l'altro molti di questi non hanno nessuna intenzione di fermarsi da noi, ma poi qui sono costretti a restare perché ai loro confini, Francia, Austria, Svizzera non sono affatto umanitari come si pretende da noialtri. Certo, loro non hanno il ricatto umanitario di gente che rischia di morire in mare, ma com'è possibile che un problema del genere non venga affrontato e gestito in modo comunitario ?
Giacalone aveva proposto di individuare un'isola, non ricordo quale suggerisse, dove raccogliere tutti questi disperati, identificare i fuggitivi per motivi politici, e quelli accoglierli come rifugiati, e gli altri rimandarli a casa loro, che per entrare in un altro paese bisogna rispettare delle regole. Questa cosa la dovrebbe fare l'EUROPA, non solo l'Italia, che non avrebbe la forza politica, navale ed economica per gestirla. E sarebbe quel segnale che Galli della Loggia ritiene giustamente importante da mandare per fermare un fenomeno che NON possiamo sostenere.
Accogliere sì MA ragionare
di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA
Salvare dalla morte in mare è un conto, accogliere
stabilmente nel proprio Paese un altro. Il primo è un obbligo assoluto per ogni
collettività civile, la seconda è una scelta politica. L’operazione «Mare
nostrum» implica invece la contraddittoria sovrapposizione/identità delle due
cose. In tal modo infatti viene percepita dall’opinione pubblica, e proprio
perciò essa rischia alla lunga di divenire insostenibile.
Finora le autorità italiane hanno cercato di eludere la contraddizione ora detta ricorrendo a un escamotage . In pratica, salviamo dal naufragio gli immigrati ma, contravvenendo alle disposizioni europee, spesso evitiamo di identificarli nel solo modo possibile, cioè prendendo le loro impronte digitali e depositando queste in una banca dati europea. In tal modo è loro possibile cercare di andare (e restare) in qualche altro Paese dell’Unione Europea perché da esso, anche se scoperti, non potranno mai essere rinviati nel Paese di prima accoglienza che li ha identificati — come prescrivono sempre le norme europee — semplicemente perché un tale Paese non è mai esistito.
È in questo modo che l’Italia, alla quale sotto questo riguardo fa buona compagnia tutta l’Europa, evita di affrontare la questione cruciale: quanti immigrati possiamo (può l’Unione) assorbire? Nessuno lo sa e/o lo dice: dieci milioni, venti milioni? I numeri che premono dall’Africa e dall’Asia sono di quest’ordine, ma nessuno se ne cura. Sembra che neppure sia lecito porsi la domanda.
Che tuttavia resta la domanda. Anche se preferiamo aggirarla definendo «operazione umanitaria» di salvataggio qualcosa che è senz’altro questo, sì, ma che, per le ragioni dette sopra, è pure una decisione politica di accoglienza. Una decisione che appartiene peraltro a quel genere di decisioni che hanno due caratteristiche che dovrebbero far tremare le vene ai polsi di qualunque politico si appresti a prenderle, dal momento che: a) una volta adottata è terribilmente difficile revocarla, e, b), una volta adottata, il ruolo di chi la adotta non può che essere di totale passività.
E infatti è questo il nostro caso. L’Italia e il suo governo, una volta deciso di affrontare l’immigrazione transmarina con l’operazione «Mare nostrum», di fatto non sono più in grado di esprimere alcun punto di vista o di sostenere alcun interesse proprio con una minima possibilità di far valere concretamente l’uno o l’altro. Anche perché privi di reali interlocutori. Essi svolgono più o meno il ruolo che svolge un centralino dei Vigili del fuoco nel rispondere alle chiamate di soccorso. Punto e basta.
Ma anche se non riceve risposta, la domanda decisiva resta in tutta la sua crucialità: quanti immigrati può accogliere l’Italia? Quanti l’Europa? Un numero illimitato? Può essere, ma allora sarebbe bene dirlo. Invece le classi politiche italiane ed europee hanno preferito finora far finta di nulla, e nei fatti conformarsi ai due comandamenti etici e/o ideologici che sembrano prevalere presso le loro opinioni pubbliche. Quello del cosmopolitismo multiculturale da un lato, e quello della sollecitudine cristiana per i derelitti dall’altro.
Finora le autorità italiane hanno cercato di eludere la contraddizione ora detta ricorrendo a un escamotage . In pratica, salviamo dal naufragio gli immigrati ma, contravvenendo alle disposizioni europee, spesso evitiamo di identificarli nel solo modo possibile, cioè prendendo le loro impronte digitali e depositando queste in una banca dati europea. In tal modo è loro possibile cercare di andare (e restare) in qualche altro Paese dell’Unione Europea perché da esso, anche se scoperti, non potranno mai essere rinviati nel Paese di prima accoglienza che li ha identificati — come prescrivono sempre le norme europee — semplicemente perché un tale Paese non è mai esistito.
È in questo modo che l’Italia, alla quale sotto questo riguardo fa buona compagnia tutta l’Europa, evita di affrontare la questione cruciale: quanti immigrati possiamo (può l’Unione) assorbire? Nessuno lo sa e/o lo dice: dieci milioni, venti milioni? I numeri che premono dall’Africa e dall’Asia sono di quest’ordine, ma nessuno se ne cura. Sembra che neppure sia lecito porsi la domanda.
Che tuttavia resta la domanda. Anche se preferiamo aggirarla definendo «operazione umanitaria» di salvataggio qualcosa che è senz’altro questo, sì, ma che, per le ragioni dette sopra, è pure una decisione politica di accoglienza. Una decisione che appartiene peraltro a quel genere di decisioni che hanno due caratteristiche che dovrebbero far tremare le vene ai polsi di qualunque politico si appresti a prenderle, dal momento che: a) una volta adottata è terribilmente difficile revocarla, e, b), una volta adottata, il ruolo di chi la adotta non può che essere di totale passività.
E infatti è questo il nostro caso. L’Italia e il suo governo, una volta deciso di affrontare l’immigrazione transmarina con l’operazione «Mare nostrum», di fatto non sono più in grado di esprimere alcun punto di vista o di sostenere alcun interesse proprio con una minima possibilità di far valere concretamente l’uno o l’altro. Anche perché privi di reali interlocutori. Essi svolgono più o meno il ruolo che svolge un centralino dei Vigili del fuoco nel rispondere alle chiamate di soccorso. Punto e basta.
Ma anche se non riceve risposta, la domanda decisiva resta in tutta la sua crucialità: quanti immigrati può accogliere l’Italia? Quanti l’Europa? Un numero illimitato? Può essere, ma allora sarebbe bene dirlo. Invece le classi politiche italiane ed europee hanno preferito finora far finta di nulla, e nei fatti conformarsi ai due comandamenti etici e/o ideologici che sembrano prevalere presso le loro opinioni pubbliche. Quello del cosmopolitismo multiculturale da un lato, e quello della sollecitudine cristiana per i derelitti dall’altro.
Entrambi ottimi principi i quali, però, non solo non servono
a governare il fenomeno migratorio, ma contribuiscono non poco a dare
l’impressione — pregna ahimè di contenuti politici — di un Paese e di un
continente che di fronte all’immigrazione non sanno fare altro che tenere la
porta aperta e lasciare entrare chiunque voglia. Alimentando così il richiamo
che esercitano sull’elettorato europeo (non sempre di destra!) i partiti che si
ispirano a un radicalismo identitario fortemente xenofobo; i quali sono ben
lieti di approfittare della politica dello struzzo adottata da troppe forze
democratiche, della loro troppo frequente rinuncia suicida a dare voce alle
ragioni dell’interesse e dell’identità nazionali.
Pensare che dal bene non possa che nascere il bene è da ingenui o da sprovveduti. Soprattutto nelle democrazie è spesso dal bene che può nascere il male: e in genere quando ci se n’accorge è regolarmente troppo tardi.
Pensare che dal bene non possa che nascere il bene è da ingenui o da sprovveduti. Soprattutto nelle democrazie è spesso dal bene che può nascere il male: e in genere quando ci se n’accorge è regolarmente troppo tardi.
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