giovedì 17 luglio 2014

BATTISTA, TIFOSO BIANCONERO ECCELLENTE, PIANGE CONTE

 
Pierluigi Battista, oltre ad essere un bravissimo giornalista, noto opinionista  invitato spesso in questa qualità in vari talk show, è tifosissimo della Juventus. Come abbia fatto a sopravvivere, lui fratello minore di un romanista posseduto e di  lui fisicamente più piazzato, me lo domando, ma sono lieto che sia andata così.
Battista è  stato in questi tre anni un accesso e fedele sostenitore di Antonio Conte, considerato, a ragione credo, l'elemento principale del triennio di dominio del calcio italiano da parte della Juve, dopo i brutti anni successivi al terremoto di calciopoli.
Una Juve che oltre a vincere ha macinato record, alcuni solo uguagliabili, come l'imbattibilità per l'intero campionato (a 20 squadre, oltretutto, quindi con più partite), o il filotto perfetto di vittorie in casa (19 ). Sarà anche difficile superare il record dei 102 punti. Anni in cui si è vinto con distacchi significativi dalle seconde (9 dal Napoli due anni fa, ancora di più contro la Roma quest'anno,  staccata di 8 punti già al girone di andata e sempre tenuta a distanza, fino al crollo dei giallorossi nelle ultime giornate). 
In Europa le cose sono un po' diverse ma lo sono per tutto il calcio italiano, da tempo mai così in basso, come anche la nazionale ha ampiamente dimostrato nel recente mondiale. Bene o male, il primo anno di ritorno in Champions, Conte portò la Juve ai quarti, dove perse con il Bayern che si laureò poi campione, mentre quest'anno non ha invece superato il girone, arrivando peraltro in semifinale nell' altra, minore va detto, manifestazione europea.  
Il gap con gli squadroni continentali e la acclarata impossibilità per la Juve attenta ai conti economici di competere sul mercato con gli stessi, sono sempre stati indigesti all'ambizioso allenatore. 
Dopo l'ultimo e irripetibile, nei numeri, trionfo indigeno, e la conferma dell'incapacità finanziaria della Juve di prendere i top player richiesti (quest'anno erano Sanchez e Cuadrado, entrambi sfumati, ma pure Iturbe non riusciamo ad accaparrarci !), Conte deve aver pensato che era meglio chiudere da vincente ed essere rimpianto. 
Per rendere ancora più salata la delusione, la Juve lo sostituisce in poche ore con Allegri, non  un simpaticone in assoluto, e in particolare da queste parti dopo le tante polemiche per il gol di Muntari di 3 anni fa. Però il conte Max ha fama di aziendalista, ché non ha stirato una smorfia quando gli demolirono il MIlan che aveva vinto lo scudetto e lottato per il bis, vendendo al PSG Thiago SIlva e Ibrahimovic. 
Agnelli almeno da questo lato dormirà sonni tranquilli.
Non da quello dei tifosi, che non hanno gradito.
L'uomo è convinto di aver creato una società nuovamente solida e vincente. Sulla prima cosa può avere ragione, sulla seconda vedremo presto.
I miei 100 euro sono sul NO. 


La fame feroce che ci mancherà
 
Nel cuore bianconero Antonio Conte non è stato un tecnico qualsiasi che si cambia e si sostituisce come una camicia sgualcita, ma il simbolo della fuoriuscita da un inferno. Lo stile Juventus, che poi esiste più nel rimpianto della leggenda che nella storia vera, avrebbe richiesto modi più compassati.
Nella sua natura sanguigna, nella sua rusticità esplicita e rivendicata, Conte ha incarnato una voglia incontenibile, una smania potentissima di rinascita dopo vicissitudini e traversie che hanno piagato l’anima di milioni di juventini. Il suo addio alla Juve è molto più di un normale avvicendamento di panchine. E non è nemmeno soltanto la fine di un ciclo glorioso, tre scudetti consecutivi, uno straordinario record di punti. È lo spegnersi di una stagione che è stata contrassegnata da una fame feroce di nuova vita. Ecco perché il congedo di Conte viene sentito dal popolo juventino con tanto dolore, con un dolore che non si deve esitare a definire «luttuoso», anche se l’accostamento può suonare come un affronto improprio. Ma si parla di emozioni, non di due calci al pallone. Chi non è juventino e odia la Juve stenta a capire che tipo strano di identificazione si instauri tra la squadra bianconera e chi ha deciso di sposarne i colori. Forse solo gli interisti possono capire, e cioé solo chi sente di appartenere a una squadra che non è solo un semplice campanile trasferito su un campo di calcio. Forse è per questo che tra interisti e juventini ci si detesta così tanto: perché ambedue, Juve e Inter (e solo parzialmente il Milan), non sono ancorati a una territorialità, a una città, a una comunità comunale o regionale, a uno spirito campanilistico per cui si é della Roma perché di Roma,del Napoli perché napoletani, della Sampdoria o del Genoa perché genovesi. No, sono il frutto di un incontro. Non si può definire una scelta, perché non c’è nulla di irrazionale. Ma ci si trova gettati in una comunità, in un’epopea, in una mitologia, in un colore che non hanno nulla da spartire con l’appartenenza geografica e territoriale. Per cui gli anni dell’inferno sono stati vissuti dagli juventini come una prova iniziatica di sofferenza, un precipitare nell’abisso, una caduta rovinosa in una sfera da cui la storia della Juve, la storia delle sue competizioni, della sua voglia di vincere, del suo essere obbligati a stare sempre in cima, mai sazi, mai appagati, era sempre stata lontana. E ci si sentiva sopraffatti da un’ingiustizia, feriti, distrutti, ma mai umiliati. E si andava a Crotone mentre gli altri si spartivano gli scudetti. E ci si aggrappava alle bandiere di Buffon, di Del Piero, di Trezeguet, di Pavel Nedved e degli «eroi» che erano restati a soffrire con noi, attaccati a una storia, a un simbolo, a una bandiera, a una leggenda. Ma questo inferno non finì con la scalata in serie A. Anzi quell’inferno diventò ancora più bollente, quando la squadra prese a balbettare una storia non sua. Una storia mediocre. Una storia da centro classifica. Brocchi comprati dall’estero a cifre mostruose. La paura di affrontare le squadre ancora meno blasonate ma che incutevano un assurdo timore reverenziale. Allenatori di stoffa scadente. Giocatori condannati alla panchina messi lì a recitare in bianconero una parte che non era la loro. È questa storia che Conte, con l’ausilio di una società finalmente rimessa in piedi dai suoi vertici in giù, con il «nostro» stadio ha spezzato e sepolto restituendo l’orgoglio, la voglia di combattere, il desiderio di primeggiare, la determinazione, il non arrendersi mai, la classe di Pirlo, Tevez che corre come un dannato fino al novantesimo, l’orrore della sconfitta. Il riscatto. La rinascita. Gli scudetti. Persino le frustrazioni in Europa. E ora? E ora si resta svuotati, costretti a immaginare un futuro incolore, in cui quella fame feroce di punti e di gloria può diventare un ricordo del passato. Un ripiombare nella mediocrità che ci spaventa. Una nostalgia crudele per Conte, e sono passate a stento ventiquattro ore. Sul campo.

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