Chi legge con buona volontà, e quindi con una certa continuità, il Camerlengo, credo possa apprezzare due cose : 1) dico con chiarezza quello che penso 2) dò spazio nel blog, riportando gli articoli di vari opinionisti di valore, anche a tesi non coincidenti con le mie.
Certo, non arrivo ad ospitare Travaglio, Spinelli, Giannini...però al di fuori di questi casi limite, la dialettica è favorita.
Sul problema drammatico israelo-palestinese ho scritto tanto, e riportato tanti interventi, seguendo sempre le line guida sopra dette.
E con questo spirito che dò spazio a Roberto Toscano, de La Stampa, che dice molte cose che condivido insieme ad altre che mi lasciano più perplesso.
Non necessariamente contrario, ma dubbioso.
Per esempio, si contesta sempre ad Israele che nel difendersi - il cui diritto non viene in genere negato anche dai pensatori cd. progressisti - usi smodatamente la forza, con la conseguenza che le vittime civile sono in numero sproporzionato rispetto a quelle militari. Il problema c'è, ma come risolverlo, domando a Toscano e a quelli che dicono la stessa cosa, quando i civili, le loro abitazioni, le loro scuole ed ospedali, vengono usati come deposito di armi, rifugi dei capi militari che si vuole colpire e così via ?
Non credo ci sia una risposta valida a questa domanda. E infatti queste persone auspicano proprio che non si ricorra alla forza, ma allora in cosa consiste il diritto di autodifesa, quando Hamas spara i suoi razzi e scava tunnel con l'intento di riattivare iniziative terroristiche (tipo assalti suicidi) che le misure preventive israeliane da qualche anno hanno praticamente eliminato ?
Contraddizioni a parte, c'è sempre il condivisibile auspicio di soluzioni diplomatiche, che vedo predicate e perseguite da quando avevo 10 anni, e quindi da 40.
Il che mi fa temere che il nodo gordiano era uno scherzo rispetto al problema delle costituzione e coesistenza pacifica di due stati arabo israeliano in quella parte di terra.
Gli antisemiti e il pretesto del conflitto
Basterebbe lo stillicidio di perdite umane per considerare
la crisi di Gaza come una calamità sia politica che morale. Ma non basta. Non
solo la cosiddetta comunità internazionale non sembra in grado di farsi carico
di una strategia capace di contribuire a mettere fine a un conflitto
palesemente senza sbocchi per nessuna delle parti coinvolte, ma nello stesso
tempo le tossine messe in circolazione dal conflitto si trasmettono
inevitabilmente ben al di là dei territori dove esso si svolge.
In Francia le manifestazioni anti-israeliane sono in qualche
caso degenerate in attacchi antisemiti, mentre i genitori dei bambini nelle
scuole ebraiche esprimono preoccupazioni per la loro sicurezza. In Germania –
il Paese che, con buona pace di un buontempone nostrano, non solo non ha mai
negato l’esistenza dei campi di sterminio, ma ha assunto su di sé l’onere della
colpa storica della Shoah – un gruppo di manifestanti ha marciato scandendo
l’osceno slogan: «Hamas, Hamas, Juden ins gas» (gli ebrei al gas).
In Europa sta forse crescendo l’antisemitismo? E che legame
esiste fra l’antisemitismo e il conflitto israeliano-palestinese?
Si potrebbe rispondere che l’antisemitismo in Europa non è
mai del tutto morto, nonostante la tragica lezione della storia. Anzi, come
dimostra il caso di alcuni Paesi dell’Europa centro-orientale, ci può essere
antisemitismo anche laddove non ci sono più ebrei.
Anche l’aberrante miscela fra un certo radicalismo
anti-imperialista e antisemitismo filonazi non è nuova. Viene da ricordare uno
dei fondatori della Rote Armee Fraktion, l’avvocato Horst Mahler, passato dal
terrorismo di ultrasinistra all’antisemitismo negazionista e alla iscrizione al
Npd, partito neonazi, e un altro avvocato, Jacques Vergès, fra i cui clienti
(non sembra difesi solo in chiave professionale) vi erano tanto il terrorista
filopalestinese Carlos che il boia nazista Klaus Barbie.
Proprio perché la bestia dell’antisemitismo non è mai
scomparsa, ma è invece sopravvissuta annidata nelle fogne dell’incultura e
della violenza, è urgente tracciare senza ambiguità un confine invalicabile fra
antisemitismo e critiche alla politica e alle azioni di Israele.
Sono tante le voci, in Israele, che esprimono dubbi, critiche,
condanne: i giornalisti di Haaretz, che denunciano il bombardamento
indiscriminato di Gaza: i movimenti pacifisti e per i diritti umani; Avraham
Burg, ex presidente dell’Agenzia Ebraica e per alcuni mesi addirittura
presidente della Repubblica, secondo cui il sionismo – nato per fornire agli
ebrei, con la creazione di uno Stato ebraico, una protezione contro le secolari
persecuzioni cui sono stati sottoposti – oggi ha finito ingiustamente e
paradossalmente per far ricadere sugli ebrei ovunque le conseguenze della
politica seguita dallo Stato di Israele nei confronti dei palestinesi.
E questo non è vero solo in Israele, ma anche negli Stati
Uniti e in Europa, dove non mancano certo gli ebrei che esprimono critiche
anche dure in relazione al dramma di Gaza e in generale alla questione
palestinese. Tante voci ebraiche, che risulta ridicolo cercare di squalificare
con la contorta definizione, inventata dalla destra ebraica negli Stati Uniti,
di «self-hating Jews», ebrei che odiano se stessi. A noi invece viene il
sospetto che siano proprio loro che hanno più a cuore il destino dell’ebraismo
e degli ebrei in Israele e nel mondo.
Nel momento in cui senza indulgenze dichiariamo
inammissibile passare dalla critica, e anche dalla condanna, a quanto sta accadendo
a Gaza all’antisemitismo, dobbiamo però condannare con altrettanta chiarezza
l’operazione disonesta di chi cancella quell’invalicabile confine partendo
dalla parte opposta.
È logicamente insostenibile e politicamente indecente
definire antisemita chiunque osi opporsi ad un’occupazione che dura dal 1967,
chi ritiene che l’espansione dei settlements renda del tutto fraudolenta la
proposta dei due Stati, chi fa notare che quando a Gaza le morti fra la
popolazione civile sono l’80 per cento del totale delle perdite umane diventa
assurdo definirle «danno collaterale», chi si preoccupa che sul piano politico
l’unico risultato di questa operazione, presentata come anti-Hamas, finisca
inevitabilmente per produrre non solo a Gaza ma anche nel West Bank il rafforzamento
dei fondamentalisti di Hamas e in parallelo l’indebolimento di Abu Mazen.
Le critiche a Israele, infatti, non dovrebbero certo farci
dimenticare l’oltranzismo di Hamas, che insiste nei suoi insensati lanci di
razzi, che continua a negare il diritto di esistenza di Israele anche nel
momento in cui accetta un compromesso con i moderati dell’Autorità Palestinese,
che prefigura nel suo esercizio del potere a Gaza un regime che non auguriamo
certo al popolo palestinese. E allora dovremmo ricordare che non sono certo i
moderati che prevalgono quando si combatte, soprattutto in presenza di una
macroscopica asimmetria di potenza militare e di un conflitto con strazianti
perdite di civili. Per questo motivo, se non si è sensibili a considerazioni umanitarie,
si dovrebbe almeno essere sensibili al realismo: l’operazione militare contro
Gaza si concluderà probabilmente con una vittoria tattica di Israele, ma con
una sua sconfitta strategica, fra l’altro con una perdita di appoggio e
consensi anche da parte di chi, in Europa ma anche in America, sarebbe
difficile definire come «nemico di Israele», se non addirittura antisemita. Il
problema va oltre Gaza e la dimensione militare dello scontro e anche oltre la
problematica umanitaria. Lo conferma il fatto che il segretario di Stato Kerry
ha detto ieri che se non si troverà uno sbocco politico al conflitto
israelo-palestinese Israele diventerà uno «Stato di apartheid». La sua, e la
nostra, è una preoccupazione per Israele, non contro Israele.
Andrebbe anche riletto quello che Hannah Arendt scrisse, nel
momento della fondazione dello Stato di Israele: che senza un accordo con gli
arabi Israele sarebbe stato destinato a dipendere per la sua sopravvivenza
dalla protezione, inevitabilmente aleatoria, degli Stati Uniti, e a convertirsi
in «una Sparta» obbligata a dare assoluta priorità alle esigenze di autodifesa.
E’ vero che una soluzione politica è estremamente
problematica, e non esclusivamente per responsabilità di Israele, ma sulla base
dei fatti sembra difficile negare che l’idea di una soluzione militare sia del
tutto illusoria.
CATERINA SIMON
RispondiEliminaIl problema di chi critica Israele è che non dice mai IN CHE MODO Israele dovrebbe reagire per contrastare Hamas e far finire gli attacchi al suo territorio. Il muro, che ha posto fine alle stragi negli autobus e nelle pizzerie, non va bene: è il muro dell'apartheid. La risposta militare ai razzi è criminale: fa strage di civili. Ma perché, gli obbiettivi dei razzi di Hamas non sono forse i civili israeliani, posto che i razzi sono diretti sulle città e quindi sulle case, le scuole, gli ospedali? L' INTENZIONE di Hamas è di uccidere i civili, fallisce perché la gente è nei rifugi, ma lo scopo è quello. Perché questo non è oggetto della riprovazione internazionale? Si vuole forse sostenere che per non farsi accusare di sproporzione gli israeliani dovrebbero rispondere ai Kassam coi Kassam e tenere i civili fuori dai rifugi? I sostenitori della causa palestinese, anziché strillare pace, pace, pace, in questo modo completamente inutile e acritico, dovrebbero guardare con lucidità chi vuol fare la pace e chi no. Una volta arrivati all'ovvia conclusione, dovrebbero spingere per l'isolamento di Hamas, facendo leva su chi lo sostiene economicamente a incominciare dal Katar, chiedere che la popolazione di Gaza venga assistita da una forza internazionale che gestisca anche gli aiuti internazionali facendo fuori le ONG e impedendo che Hamas li utilizzi per tutt'altri scopi, e dopodiché sostenere Abu Mazen che tanto anche li, tra problema profughi e Gerusalemme, da discutere ce n'è a sufficienza.