Ritengo utile proporre la lettera inviata a Sergio Romano da un lettore del Corriere, e naturalmente la risposta del noto opinionista.
Credo sia esemplare, e possa servire a tanti retori che si leggono e si ascoltano in giro.
Uno di questi è proprio il lettore, che parte dal solito luogo comune secondo il quale le riforme i tedeschi le fanno perchè popolo più disciplinato del nostro. Ora, i luoghi comuni sono per lo più verità ripetute fino alla noia, con la colpa della semplificazione. Nella fattispecie, nessuno discute la diversità di due popoli per storia, etnia, geografia, come l'Italia e la Germania.
Però poi non è vero che lì sono santi e noi siamo asini. Per dire, l'evasione fiscale, esiste anche in Germania, il sommerso, il nero, è imponente anche da loro. Da noi di più, d'accordo, ma non è che chi "pecca" di meno è per ciò santo. Sono i sistemi che hanno una diversa efficienza e sicuramente questo è frutto di una classe dirigente migliore, che sa ridurre gli effetti dei difetti del proprio popolo. I tedeschi per esempio da tempo, fregandosene di una azione unitaria con l'Europa, hanno raggiunto un accordo con la Svizzera per tassere i capitali teutonici emigrati lì. Noi ogni tanto ne parliamo, ma giusto quello. Ne deriva che anche i germanici esportano capitali, ma il loro governo ha trovato il modo di raggiungerli ugualmente. Parimenti per il sommerso. Lì non si combatte facendo la guerra al contante e quindi alla libertà di circolazione del denaro. In Germania non c'è nessun limite di spesa in questo senso. Resta alla fine che quel denaro "respira", si muove, viene speso, e questo aumenta il gettito fiscale, a partire dall'IVA. Noi, coi nostri sistemi, aumentiamo il prelievo IVA (tre anni fa era al 20%, adesso è al 22) per vedere diminuire gli incassi percentuali.
Infine, le riforme servono eccome, e non è che i tedeschi le abbiano fatte sorridendo e plaudendo. Scrhoeder si è giocato la cancelleria per imporle, ma lo ha fatto.
E ha salvato il suo paese.
Ecco, in Italia in effetti di Schroeder (e nemmeno di Kohl, o anche di Merkel) non ce ne sono.
LA BATTAGLIA PER LE RIFORME
VINTA A BERLINO, PERSA A ROMA
Per l’ennesima volta, sento dire che le fortune della Germania sarebbero legate a «riforme». Chiedo, allora, che finalmente ci venga svelato in dettaglio in che cosa abbiano consistito tali miracolose riforme: potremmo soppesarle e copiarne qualcuna. Non mi si dica che tali riforme, in ultima analisi, abbiano ridotto il costo del lavoro per unità di prodotto o altre amenità del genere. Chiesi, tanti ma tanti anni fa, a persona che ben conosceva quel mondo, quale fosse il segreto delle fortune della Germania; mi rispose: «Vedi, là nessuno si ammazza di lavoro ma, là, tutti lavorano con impegno e serietà». Capii immediatamente il messaggio. Si tratta di un popolo disciplinato, dote, questa, assolutamente necessaria, ad esempio, per operare nell’ambito della grande industria (anche nell’ambito militare, peraltro). Ci sarà
pure un motivo se, là, la grande industria ha prosperato mentre da noi ha fallito su tutta la linea. Non credo, pertanto, che c’entrino le riforme quanto invece l’indole di quel popolo che, potrà non essere simpatico a tutti, ma che sul piano organizzativo è molto, molto diverso da noi.
Luciano Gioia
Caro Gioia,
Le riforme a cui generalmente si allude nel caso tedesco sono quelle realizzate dal governo di Gerhard Schröder fra il 1998 e il 2005. Ma possono essere comprese e apprezzate soltanto se collocate nel contesto della situazione economica tedesca dopo l’introduzione dell’euro alla fine degli anni Novanta. Il marco era sopravvalutato e il suo valore aveva un effetto negativo sulle esportazioni. Il costo dell’unificazione pesava ancora sul bilancio dello Stato. La produttività cresceva meno dei salari. E la risposta di molti industriali a questo stato di cose era la delocalizzazione, vale a dire il trasferimento delle fabbriche soprattutto nei Paesi ex comunisti, dove la mano d’opera era complessivamente bene istruita e i salari molto più bassi. Schröder spiegò ai sindacati che quella emorragia avrebbe danneggiato in ultima analisi anche le loro organizzazioni e li persuase a collaborare. Fu molto più facile da quel momento fare le riforme che maggiormente contribuirono al rilancio della economia tedesca: riduzione dei costi delle aziende, diminuzione dei salari reali (più lavoro per la stessa retribuzione), nuovi contratti di lavoro a tempo determinato, diminuzione della spesa sanitaria, allungamento dell’età lavorativa. Nel giro di pochi anni tutti i principali indicatori economici — esportazioni, produttività, occupazione — dimostrarono che la cura Schröder stava facendo miracoli. Ne avemmo la prova quando il cancelliere socialdemocratico fu abbandonato da una parte del suo partito e perdette le elezioni del 2005. Era divenuto impopolare, ma la terapia non sarebbe stata efficace se la riforma non avesse comportato parecchi sacrifici e i riformatori non fossero stati pronti a pagarne il prezzo.
In Italia le cose sono state fatte a metà. I sindacati non volevano la collaborazione, ma la concertazione, vale a dire un condominio che avrebbe inevitabilmente limitato le capacità riformatrici di qualsiasi governo. La legge Biagi tentò di liberalizzare il mercato del lavoro, ma fu tenacemente combattuta e naufragò sullo scoglio dell’art. 18. Berlusconi voleva sopravvivere più di quanto volesse riformare. La legge Fornero sulla pensione a 67 anni arrivò tardi in una fase di crisi, quando i suoi effetti avrebbero giovato al bilancio dello Stato ma aumentato la disoccupazione giovanile.
Le riforme sono difficili in Italia, caro Gioia, perché ogni corporazione, dai maggiori ordini professionali alla più modesta sigla sindacale, ha di fatto un diritto di veto. Abbiamo spinto il concetto di democrazia sino a generare il suo opposto: la tirannia delle minoranze.
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