Non condivido mai completamente il pensiero di Roberto Toscano (diverse cose sì), ma apprezzo il suo modo di analizzare i problemi di politica estera, materia che ha imparato a conoscere per la sua professione di ambasciatore. L'articolo che riporto, scritto per La Stampa, lo trovo interessante perché fornisce un angolo di visura diverso da quello giustamente preoccupato di questi tempi, dove il Pontefice ha parlato di una terza guerra mondiale che si svolge però "a pezzi".
Ovviamente, chi ha vissuto (le persone nate negli anni 20 e 30 ancora vive) la seconda e chi ha studiato anche superficialmente entrambe, sa che si parla di tragedie immani, dove morirono decine di milioni di persone, con bombardamenti a tappeto disumani di intere città fatti anche dai vincitori (per non parlare di Hiroshima e Nagasaki), e obiettivamente oggi, sia pure con gli orrori che si vedono in tv, non siamo a quei livelli di morte e distruzione.
Resta che l'incendio e l'instabiltà del medio oriente, che tocca Libia, Siria, Iraq e non abbandona mai veramente Israele e Palestina, non può non suscitare preoccupazione, anche per i distratti , visto le migliaia di immigrati che si riversano in Europa e le minacce jidhaiste contro l'Occidente. Poi c'è la crisi Ucraina, con il nazionalismo russo che si teme possa estendersi ad altri paesi (Moldavia e Kazakistan) per toccare quelli baltici, aderenti alla Nato e che potrebbero costringere l'alleanza a intervenire a loro difesa.
Ecco, Toscano interviene per dire che il mondo è sempre stato diversamente irrequieto e che rispetto a stagioni trascorse vi sono zone che si sono calmate, come l'America del Sud. E cita l'Indonesia come esempio di stato abitato da decine di milioni di islamici assolutamente pacifici.
Insomma, stare all'erta sì. non sottovalutare, ma nemmeno appanicarsi, ché la paura può essere una cattiva consigliera, afferma l'ex diplomatico, ed è bene non farsene prendere la mano.
Buona Lettura
La trappola della paura
Il presidente Usa ha contestato l’opinione, oggi prevalente, di un peggioramento generalizzato della situazione sia in America che a livello mondiale. E’ certamente giusto, come ha fatto ieri Paolo Mastrolilli su queste pagine, rilevare come il fatto stesso che Obama abbia ritenuto necessario effettuare questo intervento confermi le pesanti difficoltà, e anche le evidenti sconfitte, che hanno caratterizzato e continuano a caratterizzare la sua amministrazione.
Faremmo però male a non prendere in considerazione il messaggio di Obama, seppure al netto dello scoperto intento politico.
Quando dice che in questi giorni «hai la sensazione che il mondo stia cadendo a pezzi» il Presidente americano dice infatti una cosa verissima su cui sarebbe opportuno riflettere, anche se non si può evitare di rilevare la fragilità dell’argomentazione secondo cui il prevalere di visioni negative sarebbe in gran parte il prodotto del modo in cui i media descrivono la realtà dei nostri giorni.
Non si tratta certo di contestare la gravità di quello che sta succedendo dall’Ucraina all’Iraq. Si parla del «cancro» dello Stato Islamico, che secondo i critici repubblicani di Obama andrebbe senza indugi eliminato con una radicale operazione (naturalmente militare), e certo qualcuno finirà per ricorrere al parallelo di un altro flagello che ci preoccupa in questi giorni, l’ebola. Volendo indulgere al vezzo dei paralleli medici, forse quello che sta avvenendo è invece che una serie di crisi, di infezioni di per sé limitate e non necessariamente collegate fra loro, minaccia di produrre una sorta di micidiale setticemia del sistema internazionale, sempre più ingovernabile.
Non è sempre vero che, per citare Franklin Roosevelt, l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa. Le crisi sono vere, le minacce serie e molteplici, e tuttavia in questi giorni viene da pensare che il diffondersi di certe visioni apocalittiche finisca per paralizzare la volontà di agire in risposta alle sfide. In un suo blog dal titolo «Archetipi», un professore dell’Università di Pennsylvania, Michael Brenner, scrive che l’opinione pubblica americana – formata dalle versioni hollywoodiane della storia piuttosto che da una sua diretta conoscenza – vede l’avanzata dei jihadisti dello Stato Islamico come il travolgente attacco di Aqaba in Lawrence d’Arabia (Peter O’Toole) o quello delle orde beduine del Mahdi (Laurence Olivier) del film Khartoum. Ma il timore più profondo è la combinazione della violenza fanatica di stampo premoderno insieme ad, come nel caso dell’11 settembre, una capacità di colpire ovunque utilizzando i più sofisticati strumenti tecnologici: qui sia Al-Qaeda che lo Stato Islamico sollevano l’immagine bondiana della Spectre.
Un nemico travolgente, demoniaco, forse inarrestabile.
E’ proprio qui che la percezione, quando diventa apocalittica, si ripercuote sulla capacità di reagire, e non solo militarmente.
In uno dei suoi brillanti interventi satirici, Jon Stewart ha mostrato un «blob» delle notizie diffuse dalle televisioni americane – in una sorta di gara di catastrofismo – sull’avanzata dei jihadisti, e ha commentato: «Ma se davvero le cose stanno così, se questi sono davvero inarrestabili, che senso ha discutere su come reagire? Arrendiamoci!».
Sembra purtroppo che non si sia in grado, e non solo in America, di sfuggire alla disastrosa alternativa fra silenzio e toni drammatici. Ci concentriamo sulla «crisi del giorno» in modo spasmodico e sovreccitato, per poi dimenticarla una volta superata la fase più acuta, dimenticando che le ragioni che hanno prodotto lo scoppio della crisi rimangono da affrontare, non con le bombe ma con la politica. Per fare un solo esempio, si può stare certi che, se la tregua terrà, Gaza scomparirà dagli schermi. Soffriamo tutti della sindrome della «soglia di attenzione limitata», e dico «tutti» perché sarebbe scorretto attribuire le responsabilità esclusivamente ai media, dimenticando il ruolo dei politici e dello stesso pubblico, uniti nel gusto per la facilità e l’immediatezza e dall’avversione per la riflessione approfondita sui problemi e le opzioni politiche.
Non si chiede certo a politici, ai media e ai «consumatori» delle notizie di concentrarsi solo su dettagliate – e pesanti – analisi ed approfondimenti, o peggio ancora sulle notizie positive ed edificanti, ma per una conoscenza non episodica ed epidermica della realtà sarebbe quanto meno importante seguire con più serietà e continuità il filo delle crisi, e riflettere anche su come in molti casi si sia riusciti ad uscirne.
Perché l’America Latina si è liberata dall’alternativa dittatura/guerriglia che tanto a lungo ne aveva caratterizzato la storia politica? Come si è stabilizzata l’Albania, che solo pochi anni fa sembrava destinata all’instabilità e a riversare sull’Italia migliaia di migranti? Come mai in Indonesia, il più popoloso Paese islamico, non prevale il fondamentalismo? Come si è passati da dittatura a democrazia a Taiwan e in Sud Corea?
Riflessioni ed approfondimenti di questo tipo potrebbero essere utili per fornirci indicazioni su come affrontare le crisi presenti, e nello stesso tempo per contribuire a smentire le profezie apocalittiche, pericolose perché tendono ad auto-realizzarsi.
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