domenica 21 settembre 2014

JOHN CANTLIE FA DI TUTTO PER SALVARSI LA VITA E SI COMPRENDE. QUATTROCCHI AL SUO POSTO MOSTRO' CORAGGIO



Adriano Sofri lo dice subito : le sue sono considerazioni di chi comunque sta al sicuro e certo non rappresentano un biasimo per chi, in gravissimo pericolo di morte, cerca in ogni modo di salvarsi la vita. 
Parlando però del messaggio di John Cantlie, il britannico prigioniero dei barbari dell'IS, praticamente certa prossima vittima sgozzata in mondo visione, il bravo scrittore e giornalista fa delle riflessioni a mio avviso corrette. Chi va in quelle zone, deve mettere in conto che rischia la pelle, e di poter morire anche in malo modo. In questo caso Cantlie era già stato un beneficato, perché catturato una prima volta, era stato fortunato ad essere liberato. Ci ha riprovato, ha sfidato nuovamente la sorte, forse pensando che lui in qualche modo alla fine se la cava sempre, magari andando in rete e spiegando come l'Occidente, cioè il mondo da cui proviene e di cui fa parte a pienissimo titolo, faccia schifo e il Califfato abbia ragione. 
Non dimenticate la premessa : chi sta per morire è normale che abbia paura e pensi di dover fare di tutto per sopravvivere.
Però se poi capita un Fabrizo Quattrocchi, che ai suoi aguzzini con orgoglio sprezzante disse "vi faccio vedere come muore un italiano", bè , per una volta, possiamo dire che il coraggio è stato  dalla parte nostra.

Il cianuro nello zaino




Non cederemo alla tentazione di giudicare John Cantlie, prigioniero in balia di compiaciuti tagliatori di teste. Però la sua vicenda, ancora alla puntata introduttiva, spinge a interrogarsi su che cosa aspetti chi, giornalista all’antica, free-lance contemporaneo, cooperante o volontario, si avvicini alla violenza del medio oriente. “Non ho niente da perdere”, dice Cantlie. Non è vero. Fare da portavoce dei propri carcerieri e boia imminenti è, almeno per chi guardi dal sicuro, peggio che rischiare la vita. Chiunque parta alla volta di quella e di tante altre parti infelici del mondo, deve mettere nel conto, se non sia del tutto sventato o fuorviato, di poterci perdere la vita, restare mutilato, esser catturato e torturato. Anche d’esser piegato a recitare la propaganda dei propri sequestratori, per paura o calcolo o soggezione psicologica. Ma la campagna del sedicente Stato Islamico cambia di qualità, e non solo per la tecnica e la disponibilità della rete. Nei video precedenti era sconvolgente la maledizione pronunciata da uomini che sapevano d’esser in punto di morte, e quale morte, e dovevano figurare come martiri dei torti storici e dell’abbandono cinico dell’occidente da cui provenivano. I macellai pretendevano a loro volta di apparire come esecutori di una condanna decisa dai governanti americani o britannici. Anche a non cadere nella trappola infame, si era turbati nell’intimo dalla resa di quegli infelici incolpevoli ostaggi. Cantlie va oltre. Lascia –lasciano- intendere che la sua vita sia ancora in bilico. E che comunque, perduta la speranza, restato solo al mondo e vivo ancora per il capriccio dei suoi padroni, tanto valga per lui giocare la carta della denuncia ragionata, documentata e seriale delle colpe dell’occidente e della bontà del califfato. Cantlie era già stato rapito in Siria, ferito mentre tentava la fuga, liberato in uno scambio mediato dal Free Syrian Army. Aveva intitolato così il suo reportage, citando la domanda che gli avevano rivolto i carcerieri: “Sei pronto a morire?” Dev’essersi risposto di sì, quando è tornato in Siria. Non so se si sia fatto la domanda che i carcerieri non curarono di fargli: “Sei pronto a dire al mondo che l’America e la Gran Bretagna sono il male, e il jihad dei tagliagole il bene?” Ora la domanda bisogna farsela, se si parte per quel viaggio. Avrete pensato all’abitudine oltraggiosa del peso che prende il destino di un cittadino occidentale, come le vittime delle decapitazioni dell’Is, rispetto alle centinaia di migliaia di vittime siriane o irachene. Sproporzione tremenda, tant’è vero che le innumerevoli decapitazioni che hanno preceduto quelle di Foley e Sotloff e Haines erano passate inosservate se non per gli specialisti e i vouyeur dell’orrore. Quante migliaia di cristiani o yazidi iracheni, quante centinaia di migliaia di siriani, quanti milioni di congolesi vale un cittadino occidentale, una volta che il mondo lo veda su you tube con la sua tuta arancione e il coltello alla gola? (Ho appena letto in un servizio sulle tariffe assicurative nelle zone a rischio che nel Sahel “l’occidentale medio può essere liberato per 3,7 milioni di dollari”). La sproporzione si moltiplica a dismisura quando l’ostaggio occidentale in mostra diventa il portavoce del califfato, e la ragione che l’ha portato lì era di denunciare l’infamia del califfato e la pazzia dei volontari che ci andavano per arruolarsi. Se Cantlie si salvasse la vita così, o se qualche altro evento lo tirasse fuori vivo dalla sua buca, bisognerebbe rallegrarsi e accoglierlo come il figlio prodigo. Ma non è vero che non ha niente da perdere, e noi con lui. Chi decida di intraprendere il suo viaggio deve mettere in conto questo, oltre che la morte le ferite e l’umiliazione. Deve mettere nello zaino, o in un luogo più alla portata, la sua pastiglia di cianuro, per l’eventualità che condurre un programma dello Stato Islamico gli, o le, sembri peggio che morire. O almeno lasciare sul tavolo di casa uno di quei fogli con su scritto che qualunque cosa io dica o faccia una volta che finisca in quelle mani dev’essere ignorata, perché non sarei più io a parlare e agire: come, a metà fra il donchisciottesco e il ridicolo, vollero dire alcuni notabili democristiani al tempo del rapimento di Moro. Non c’è una deontologia per chi va a capire e informare, o a soccorrere, in luoghi così tormentati: ma bisogna sapere qual è il rischio, e farsela quella domanda.
Quanto all’occidente, che non si esaurisce nelle sue colpe, ne ha tuttavia da vendere, e non deve aspettare di esserne ricattato da un inerme messo a eclissare per suspense i telegiornali. Tanto meno può fare delle proprie colpe l’alibi per restare inerte o sbigottito dalla furba ferocia dei suoi nemici, così fieri dei propri primi piani, e di ammazzare da vicino.

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