Lodevole l'intento di Dario Di Vico del Corsera di offrire una sintesi dei modelli di disciplina del lavoro esistenti in Europa e che vengono spesso citati, non sempre a proposito e con esattezza, come modelli, positivi o negativi, a seconda delle trincee.
Il giornalista finisce per immaginare una soluzione patchwork, con l'adozione di un mix dei vari sistemi, il che sembrerebbe lapalissiano, se non fosse, a mio avviso, che nessun modello è perfetto, avendo ciascuno costi e benefici, e anche gli altri paesi avrebbero fatto un mix delle cose migliori se fosse possibile (leggi soprattutto economicamenter sostenibile). Bisogna quindi guardare non solo alla preferenza tra le varie soluzioni ma anche alla fattibilità delle stesse nel caso concreto.
Ed ecco che il sistema Danese non è per noi ( ma anche per gli altri, a quanto pare) percorribile, perché troppo costoso, mentre quello inglese è lontano (purtroppo) dalla nostra mentalità e cultura, molto più assistenziale e statalista. Lo spagnolo è troppo penalizzante, e quindi, se non costretti dal baratro, non lo adotteremo mai, mentre quello tedesco potrebbe andare meglio , se non fosse che da loro funziona perché i soggetti preposti al suo funzionamento, e cioè imprese sindacati ma ANCHE i giudici, sono migliori che da noi.
Abbiamo già scritto che se da noi la reintegrazione è diventato un incubo per i datori di lavoro è molto dovuto all'arroganza sindacalista e al supporto che alla stessa è stato dato dai giudici, soprattutto nel passato. Il lavoratore indisciplinato, fannullone, a volte addirittura ladro, in passato veniva regolarmente reintegrato (ancora adesso a volte accade, ma meno). Senza contare la burocrazia assurda pretesa, per esempio nei licenziamenti disciplinari, con contestazione, rsposta, impugnazione, incontri davanti all'ufficio provinciale del lavoro...Immaginate se le piccole aziende possono permettersi di seguire ogni volta un iter così dispendioso e defatigante. A quel punto meglio stare sotto i 15 dipendenti, licenziare il dipendente inefficiente o peggio, e correre il concretissimo rischio di pagare il "solo" indennizzo (oggi il massimo sono 6 mensilità), che il solito giudice paladino del povero lavoratore comminerà. Ma per tutte le imprese medie e grandi ? Il nanismo imprenditoriale italiano è dovuto anche a questo, oltre ovviamente all'insostenibile cuneo fiscale.
I Modelli
Europei
allo Specchio
di DARIO DI VICO
Per la quantità di giuslavoristi e di sindacalisti che vantiamo in Parlamento, per il peso che la cultura del lavoro ha sempre avuto nel dibattito culturale e per i protagonisti che abbiamo storicamente espresso l’Italia dovrebbe avere come dotazione un sistema modello per quello che riguarda l’occupazione, la contrattazione e più in generale la regolazione del lavoro. E invece no. Nessuno ci considera una best practice e anzi siamo costretti a inseguire, a cercare nelle esperienze dei nostri partner europei quel modello che non siamo stati in grado di costruire prima e innovare poi da soli. Bruxelles, che pure non è certo un magistero quanto a legami con l’economia reale, ci bacchetta di continuo e considera l’inefficienza del nostro mercato del lavoro come uno dei nostri principali mali. Così, come del resto è accaduto in altri campi — come è accaduto per la legge elettorale —, le querelle politiche romane si nutrono dei richiami a questa o quella esperienza straniera, spesso citati a caso come avviene nel tritacarne delle dichiarazioni giornaliere. E allora con l’aiuto di due tra i principali esperti italiani, l’ex ministro Tiziano Treu e il giuslavorista Michele Tiraboschi, abbiamo provato a individuare i tratti salienti di quattro modelli (danese, tedesco, spagnolo e inglese), che cosa ci servirebbe importare e che cosa invece è da sconsigliare. L’impressione finale è che non esista un abito su misura da comprare e indossare al volo, siamo condannati a fare zapping ovvero a scegliere in questa o quella pratica singole soluzioni da copiare. E da inserire in un impianto politico-culturale che, dobbiamo dircelo, fatica a recepire le novità .
DANIMARCA
Aggiornamento
e sostegni biennali
ma il 30% cambia
un posto all’anno
Quando si parla di un mercato del lavoro evoluto (e da copiare) il
Paese con il quale gli studiosi sono portati a confrontarsi spesso è la
Danimarca, considerata la patria dei sistemi di flexsecurity. Un termine
che già da solo evoca la perfetta quadratura del cerchio perché riesce a
rendere compatibili tra loro flessibilità, sicurezza sociale e
formazione. I salari sono flessibili perché vengono negoziati
territorialmente, anche il tempo di lavoro è materia di contrattazione e
il 30% dei salariati cambia lavoro ogni anno. L’indennità per chi cerca
lavoro è di 48 mesi, e l’indennità di licenziamento per i lavoratori a
paga bassa è superiore al 90% dell’ultimo salario per un anno. Gli
occupati hanno diritto a 2 settimane di aggiornamento professionale ogni
anno che viene pagata dalle imprese. Questi servizi però costano molto e
la Danimarca infatti ha nella Ue la spesa più alta per le politiche
attive del lavoro pari al 2,6 del Pil. Per avere un termine di paragone
l’Italia è allo 0,4% e la media dei 28 Paesi Ue non è molto più in su:
si ferma allo 0,7%. Secondo il giuslavorista Michele Tiraboschi, il
modello danese «costa molto, presuppone una pubblica amministrazione
molto efficiente e una collaborazione pubblico-privata all’insegna della
sussidiarietà». Da noi le agenzie private non sono entrate in gioco
fino in fondo, «il 98% del loro business è nei servizi interinali». Per
l’ex ministro del Lavoro Tiziano Treu, Copenhagen ha un sistema rodato
da 30 anni e che si applica a una popolazione di 5,6 milioni di
residenti (come il nostro Lazio). «C’è poi una tradizione di coesione
sociale molto forte anche se anche loro hanno dovuto fare i conti con la
crisi e hanno ridotto le coperture. Quando in Italia anche Renzi dice
di voler creare un sistema di ammortizzatori sociali orientato alla
flexsecurity deve aver ben chiaro che si tratta di un programma di medio
periodo perché oggi mancano le risorse per finanziarli. In passato
abbiamo fatto anche qualche errore, ad esempio quando ai tempi del
ministro Livia Turco introducemmo in molti Comuni il reddito minimo e ci
accorgemmo poi che si trattava di soldi che non finivano nelle mani
giuste».GERMANIA
Scuola e aziende
formano insieme
Per il disoccupato
offerte vincolanti
In Germania, come ha messo in luce di recente uno studio comparato di
The European House Ambrosetti, l’apprendistato ha un ruolo chiave nella
transizione dalla scuola al lavoro. Il 66% dei tedeschi ne ha
usufruito, dura dai due ai tre anni e mezzo, prevede un programma di
training in azienda per tre quarti del tempo e fa sì che alla fine l’80%
degli apprendisti conquisti un contratto permanente. Le riforme Hartz,
votate al tempo del cancelliere Gerhard Schröder, sono servite comunque a
stringere i bulloni di un sistema di welfare che era generoso. È stata
ridotta l’indennità di disoccupazione e chi riceve un’offerta di lavoro è
costretto ad accettarla — pena la sospensione — anche se prevede
mansioni non equivalenti al precedente impiego. L’idea di base è che lo
Stato fornisce i servizi necessari ma controlla anche i comportamenti
dei disoccupati. Per avere però un termine di raffronto va ricordato che
l’Agenzia nazionale tedesca ha 100 mila addetti e una presenza
capillare sul territorio. In caso di licenziamento esistono entrambi gli
istituti, il reintegro e il risarcimento: a decidere è il giudice che
si orienta nella stragrande maggioranza dei casi verso la seconda
soluzione. Avverte Treu: «Questa è una delle grandi differenze con
l’Italia. Da noi le imprese non si fidano dei giudici e della loro
cultura economica e di conseguenza il legislatore è costretto a emanare
norme più spigolose per ridurre l’area della discrezionalità». L’ex
ministro ricorda anche come elemento decisivo la cultura del sindacato
tedesco che consente un’ampia contrattazione decentrata. «Sicuramente
quello tedesco è un modello che funziona. Dobbiamo sapere però che noi
non abbiamo lo stesso sindacato, che le nostre Regioni deliberano in
maniera differente una dall’altra e le imprese non collaborano con il
collocamento pubblico». Aggiunge Tiraboschi: «Il sindacato tedesco
studia, sa leggere i bilanci delle aziende e la vera svolta di Hartz è
stata proprio quella di imperniare il sistema sulla contrattazione
aziendale». Se in Italia volessimo copiare il modello «pesante»
dell’Agenzia tedesca, dice Tiraboschi, «però avrei paura, torneremmo al
tempo del collocamento totalmente centralizzato» .GRAN BRETAGNA
Priorità a over 50
e categorie disagiate
L’investimento
sull’apprendistato
Il mercato del lavoro inglese è culturalmente molto distante da quello italiano e del resto non è un caso che quando si vuole accusare qualcuno di causare una rottura epocale si evochino le figure di Margaret Thatcher o Tony Blair, a seconda della gradazione polemica stabilita per quella giornata. Andrebbe aggiunto che è ormai molto differente il sistema produttivo sottostante, noi siamo comunque un Paese a forte presenza manifatturiera con un nucleo di manodopera «centrale» ancora molto significativo, l’Inghilterra — come sottolinea Treu — ha spostato il proprio baricentro sui servizi con una polarizzazione delle professionalità molto evidente, tra chi lavora a vario titolo nella finanza e chi nel terziario deregolamentato. I licenziamenti non sono mai stati un grande problema per i datori di lavoro mentre il livello delle politiche attive è considerato dallo stesso Treu «buono». Non esiste poi il contratto nazionale di lavoro e quindi il cuore delle relazioni industriali è nell’impresa. «Conta molto la seniority, l’anzianità aziendale — sottolinea Tiraboschi —. Più il datore di lavoro ti utilizza più hai garanzie. Il governo invece concentra la sua azione sulle politiche per affrontare il disagio sociale e combattere la disoccupazione degli over 50». Un elemento di novità, tutto sommato recente, è lo sviluppo dell’apprendistato che è triplicato negli ultimi anni. «La comunicazione diretta alle famiglie ha giocato l’apprendistato in concorrenza con l’iscrizione alle università, che per altro in Inghilterra costano molto. In questo modo si sono indirizzati i giovani verso un percorso lavorativo guidato e la cosa che va segnalata è che un giornale di area progressista come il Guardian si sia impegnato a fondo in questa battaglia» racconta Tiraboschi. Interessante è anche l’esperienza di StartUp Britain, una campagna nazionale lanciata nel 2011 dal premier David Cameron, rivolta a giovani imprenditori e supportata da 60 compagnie private. I risultati sono considerati più che buoni in virtù di una performance di 526 mila new business fatti registrare nel solo 2013, di cui 137 mila nella sola Londra.
SPAGNA
Utilizzo più flessibile
dei dipendenti
Bonus ai licenziati
ridotti di un quinto
Se si esce dalle semplificazioni e dagli slogan si registra che la vera discontinuità operata in Spagna, nel tentativo di velocizzare le politiche del lavoro davanti alla crisi, consiste nella ampia flessibilità organizzativa ora consentita nelle aziende. Spiega Michele Tiraboschi: «La riforma è stata puntata sulla flessibilità di inquadramento e sullo spostamento di mansioni. Dove prima c’era l’assoluto dominio della legge è stata valorizzata la contrattazione in azienda. Si può tranquillamente dire che è stata una rivoluzione di sistema perché ha riscritto la logica e la cultura dell’inquadramento professionale superando la vecchia ingessatura dei contratti collettivi». Della capacità del governo di centrodestra, capeggiato da Mariano Rajoy, di riformare il lavoro come presupposto per far ripartire la crescita se ne parla molto da noi in queste settimane e le opinioni sono assai differenti. Un motivo c’è: il tasso di disoccupazione spagnolo è semplicemente pazzesco (25%) e non paragonabile al nostro che pure è estremamente preoccupante (12%). Sostiene, infatti, Tiziano Treu: «La Spagna è stata colpita negli anni scorsi dallo scoppio della bolla speculativa legata all’immobiliare e i riflessi sull’occupazione e la produttività sono stati disastrosi con un abbattimento tra il 25 e il 30%. Gli spazi per risalire o rimbalzare erano dunque amplissimi e i confronti con noi, proprio per questi motivi, non mi paiono calzanti». Comunque Rajoy ha ridotto circa del 20% gli indennizzi per i licenziamenti economici e per quelli senza giusta causa che prima erano considerati troppo alti dalle imprese (si arrivava a 45 giorni di paga per ogni anno lavorato) che di conseguenza ricorrevano in prevalenza ai contratti temporanei pur di non assumere. Detto questo anche la Spagna, per quanto riguarda il mercato del lavoro, è un’osservata speciale di Bruxelles che raccomanda al governo di Madrid di assicurare una migliore qualità delle politiche attive di collocamento, un maggiore impegno verso i giovani disoccupati non registrati e più spazio alle politiche per la formazione e il training in azienda.
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