Normale che, alla notizia della decisione della Corte d'Appello di Palermo (dopo un anno, ricorda Ainis...non pochissimo...) di voler sentire il Capo dello Stato come testimone nel processo della cd. trattativa tra Stato e Mafia, polemiche e malizie si siano sprecate.
Non pochi annoverano questa ordinanza, che ha atteso così tanto per uscire e accade ora, come l'ennesimo segnale di avvertimento del partito dei giudici alla politica, che insiste su riforme della giustizia non gradite (in primis, la responsabilità civile dei magistrati, senza più filtri di ammissibilità, che avevano di fatto reso inutile la legge Vassalli, conseguenza, truccata, di un referendum che in maniera nettissima aveva preteso che anche i giudici rispondessero dei danni provocati dai loro errori, come TUTTI gli altri).
Naturalmente tanta gente gioirà all'applicazione del principio dell'uguaglianza di chiunque, Presidente della Repubblica compreso, di fronte alla legge. Peccato che sia proprio la legge, precisamente l'articolo 205 cpc, a stabilire che il capo dello stato non è esattamente come gli altri, tanto è vero che l'A.G. non può disporre, in caso di suo rifiuto, l'accompagnamento coatto di fronte a sé.
Vedremo come andrà a finire questo processo. La mia personalissima sensazione, è che alla fine, se non in primo grado, dove la Corte parrebbe abbastanza suggestionata dal teorema ingroiano & Co, , in quelli successivi, arriveranno molte assoluzioni per inesistenza del fatto. Ma intanto, belle picconate saranno state date al nostro già molto mal mezzo palazzo istituzionale, altro che Cossiga !
Di seguito, il biasimo amaro di un costituzionalista, Michele Ainis
UN RETROGUSTO AMARO
Ci hanno messo un anno (meglio tardi che mai),però alla fine i giudici di Palermo hanno sciolto la riserva: Napolitano sarà testimone coatto al processo sulla trattativa Stato-mafia. Anzi non coatto, volontario; e non è un dettaglio da poco. Perché il Codice di
procedura penale (articolo 205) distingue la posizione del capo dello Stato da quella degli altri vertici delle nostre istituzioni.
Il presidente della Consulta o il premier, come d’altronde i due presidenti delle Camere, se rifiutano di deporre in un processo subiscono l’accompagnamento coattivo; lui no, il codice di rito lo esclude espressamente. Dunque la sua testimonianza è sempre spontanea, non obbligatoria.
Ma evidentemente la Corte d’assise di Palermo non si cura dei dettagli. Non se ne cura nemmeno il presidente, dal momento che si è subito dichiarato disponibile. Potremmo rallegrarcene: dopotutto stiamo celebrando il trionfo del principio d’eguaglianza, con il primo cittadino trattato come tutti gli altri cittadini. Ma invece no, c’è un retrogusto amaro in quest’ultima vicenda. C’è il sospetto che la ricerca della verità sia diventata ormai un pretesto, peraltro espresso nel peggior giuridichese. Nella sua lettera del 31 ottobre scorso, Napolitano aveva già messo nero su bianco ciò che aveva da dire; ma adesso i giudici vogliono ascoltarlo per acquisire quel «contenuto dichiarativo negativo», magari con l’aiuto d’un interprete. Come a dire che la sua testimonianza scritta ai loro occhi suona reticente, sicché vogliono sottoporla alla prova dell’orecchio. Non che la verità non ci stia a cuore. Ne avremmo fame e sete, sulla strage di piazza Fontana, su quella di Bologna, su Ustica, sul delitto Moro, sulle troppe pagine stracciate della nostra storia nazionale. La magistratura italiana fin qui non ci ha saziato, però meglio il digiuno che un’abbuffata di bugie. E meglio l’apatia che una guerra permanente fra poteri pubblici e privati, se ciascuno usa la propria competenza per affermare la propria potenza. Succede spesso, ora impiegando lo schermo dell’art. 18 per regolare i conti con i sindacati, ora sventolando la privacy per ridurre al silenzio i giornalisti, ora con l’abuso dei decreti e dei voti di fiducia per addomesticare il Parlamento. Ma in Italia la vera rivoluzione sarebbe questa: che ciascuno torni a fare il suo mestiere, senza impadronirsi di quello altrui .
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