lunedì 27 ottobre 2014

LA PIAZZA GREMITA DI SAN GIOVANNI HA DIMOSTRATO UNA COSA : RENZI è IL PRIMO PREMIER ITALIANO CHE NON LA TEME E ANZI LA SFIDA


Ho letto vari articoli su Renzi reduce da un we complicato, con la quinta Leopolda - ma la prima con lui segretario del PD e premier a Palazzo Chigi - e la grande manifestazione della CGIL a Roma, con San Giovanni gremita, e con vari esponenti della sinistra PD in mezzo ai manifestanti, chiaramente schierata contro di lui.
In tanti hanno scritto che la spaccatura del PD è ormai nelle cose, tanto più che Renzi va giù duro e non sembra disponibile a grandi ricuciture.
E' anche vero che, finora, i toni sono stati spesso più ridondanti dei fatti, ma sul Jobs Act pare che la sfida sia vera, se non altro perché se la riforma suscita diverse perplessità (è anche vero che al momento siamo ai propositi, la sostanza è tutta da scrivere), lo scheletro, per quanto solo accennato, già così com'è è indigesto alla Camusso e a diversi nomi illustri della minoranza piddina. 
Elisabetta Gualmini, su La Stampa, stende peana assoluti al Premier, il "nuovo" che non deve essere ostacolato, ma anche Giuseppe Turani vede nel Premier forse l'ultima  (sarebbe la quarta, dopo Martelli, Prodi e Veltroni, secondo la ricostruzione storica del giornalista, che volutamente esclude Craxi da questa casistica) possibilità di una sinistra finalmente moderna e riformista contro quella massimalista e conservatrice (quella che mette il gettone nell'Iphone, per intenderci). 
Un fatto è certo e significativo : il milione (e comunque le tantissime persone) di P.za San Giovanni non ha spaventato minimamente Renzi, e questa sicuramente è una novità.
 Che io mi ricordi, mai in Italia c'è stato un presidente del Consiglio che si è mostrato così sicuro di sé di fronte alla sfida del sindacato.
E non credo che tremerà per lo sciopero generale. 
Di seguito il resoconto sul Corsera di Maria Teresa Meli, reduce da Firenze.


Le mosse per dividere la Cgil 
e mettere la sinistra all’angolo
 

  Che fosse così, Matteo Renzi lo ha sempre saputo: «Ho voluto la bicicletta e adesso devo pedalare». Che avrebbe incontrato ostacoli nei «conservatorismi trasversali di tutti i tipi», anche: «C’è chi ha paura di mollare il potere che ha da più di vent’anni e ci farà una guerra senza esclusione di colpi».
Sono i burocrati, «l’aristocrazia dei ceti dominanti», quei «mandarini» che adesso nei ministeri si vedono arrivare gli uomini della nuova squadra del premier a gestire direttamente le pratiche più scottanti, sulla scia di ciò che succede negli Usa con lo staff del presidente, e non hanno più quella libertà incondizionata di cui godevano prima. E non c’è un uomo solo al comando, anche se, come sostiene Renzi, a un certo punto, «è giusto che la squadra mandi avanti il proprio leader a tagliare il traguardo». Ci sono le ministre e i ministri giovani (anche quelli assenti alla Leopolda per cause di forza maggiore, come l’alluvione di Genova, cioè Andrea Orlando) che sono determinati quanto il premier. E i meno giovani lo sono forse anche di più: basti pensare che il discorso più applaudito di ieri (a parte, ovviamente, quello di Renzi) è stato l’intervento di Giuliano Poletti.
Però ci sono anche degli «avversari» che non sembrano far paura premier. Anzi gli fanno gioco. Sono i rappresentanti della minoranza interna che sabato hanno sfilato a Roma. Ecco, loro, per Renzi non rappresentano un problema. Primo perché «non avere nemici a sinistra» o, quanto, meno «concorrenti», non è mai stato il suo assillo. Secondo, perché il premier non crede che Maurizio Landini formerà con quest’area un nuovo partito. E non solo perché Renzi, nonostante sia lontano anni luce dal leader della Fiom, lo considera «una persona seria». E quindi gli crede quando dice, quasi infastidito, che a lui «interessa lavorare nel sindacato» e non «occuparsi di politica». Ma perché ritiene che comunque non imbarcherebbe quella compagnia.
Perciò, per dirla con le parole di un renziano dai modi spicci, «mena come un fabbro contro la vecchia guardia e la minoranza alla Bindi e Fassina». Il succo del suo ragionamento infatti è questo: «Non andranno da nessuna parte». Con sommo dispiacere di chi vorrebbe volentieri fare a meno di loro. Basta sentire che cosa dice Beppe Fioroni, che fa capolino anche lui alla Leopolda: «Penso che Matteo abbia veramente cambiato verso al partito e quindi a questo punto i vari Fassina & company dovrebbero andarsene con la Cgil, scindersi invece di restare qui con noi».
Ma il sogno di Fioroni non si avvererà. Anzi chi ha studiato bene le mosse di Renzi nei confronti della Cgil in questo periodo ha tratto l’idea che il premier abbia scientemente spinto Susanna Camusso all’inseguimento del leader della Fiom per consentire a Landini di portare avanti il suo vero progetto, ossia quello di lanciare un’Opa sulla Cgil. Già, perché infatti, ormai tra Renzi e Camusso sembra quasi una questione personale.
I due si stanno antipatici. Mentre nelle realtà territoriali gli uomini di Renzi collaborano con la Cgil, o, meglio, con lo Spi (il sindacato dei pensionati). La governatrice del Friuli-Venezia Giulia Debora Serracchiani sta scrivendo la riforma sanitaria della Regione insieme allo Spi. E con lo Spi collabora in Piemonte Sergio Chiamparino, a Firenze il sindaco Dario Nardella, in Lombardia Lorenzo Guerini.
E non doveva essere un caso se ieri, nel giorno dell’intervento finale di Renzi, alla Leopolda, in avanscoperta c’erano i portavoce di Landini, Giorgia Fattinnanzi, e della leader dello Spi, Carla Cantone, Lorenzo Rossi Doria.

Nessun commento:

Posta un commento