venerdì 7 novembre 2014

LA VOCAZIONE MAGGIORITARIA E LA FINE DELLA CONCERTAZIONE OBBLIGATORIA. SOGNO O REALTA' ?


Tra il folto gruppo di renziani presenti ne La Stampa, Elisabetta Gualmini è decisamente la più sedotta dal Premier, che affettuosamente chiama Matteo. Peraltro, l'analisi condotta oggi nell'editoriale del quotidano sarebbe anche suggestiva se si rivelasse esatta. Il PD che riscopre la sua vocazione maggioritaria, smettendo le vesti della sinistra identitaria ; la conquista del centro, approfittando anche della profonda crisi del centro destra e della sponda anti moderata di Grillo (ben sfruttata alle europee, dove Renzi si presentò come unico argine contro il "tanto peggio tanto meglio" ortottero) ; la fine della concertazione, con sindacati e grande (grande ??) industria che partecipano al processo legislativo.
Vedremo se effettivamente è così. In realtà c'è un vulnus in tutto questo, ed è nella origine della forza parlamentare piddina, espressa dalle elezioni del 2013, quando segretario e leader era Bersani, vincitore delle primarie e che aveva ovviamente favorito la corsa dei suoi uomini al Parlamento. Renzi ne ha cooptati molti, ché la Moretti non è certo l'unico episodio da trenta denari (sicuramente il più smaccato), ma non tutti. E siccome al Senato i voti scarseggiano, ecco che il nostro è in difficoltà e deve svolgere un esercizio che assai poco gli aggrada : la questua.  La sponda finora utilizzata, alla bisogna, è stata quella berlusconiana, che però ora sembra vacillare. Matteo, come empaticamente lo chiama Gualmini, non si perde d'animo e sonda gli ortotteri. La cosa più lineare, vista la svolta politica impressa, sarebbe in realtà tornare al voto, per avere un esercito più fedele, ma il problema è che non sarebbe bastante, con il sistema proporzionale oggi in vita causa bocciatura del Porcellum (se fosse stata in vigore quella legge, tanto vituperata dagli ipocriti di sinistra, da mò che Renzi ci aveva riportati a votare !!), ad essere autosufficiente. Anzi, anche alla Camera il PD sarebbe più debole, senza premio di maggioranza. Per cui, fino a quando non si fa la nuova legge ( ma non era stata già "FATTA" ?? e no...approvata solo alla Camera e quel testo a Renzino non va più bene...a volte il bicameralismo perfetto aiuta i ripensamenti) non si vota, a meno che la minoranza piddina non tiri troppo la corda, addirittura facendo mancare il voto di fiducia. Sarei molto stupito che accadesse : non li vedo così eroici e coerenti gli attuali parlamentari, tutti a fortissimo rischio di NON rielezione. In qualche misura, il ricatto elettorale vale anche per gli ortotteri, tutti miracolati in parlamento. Certo, per i grillini sarebbe imbarazzante andare in soccorso all'odiato Renzi, vituperato in tutte la salse e reti. Ma Montecitorio val bene una messa o no ?
Un'ultima cosa. Sono d'accordissimo sulla cessazione della concertazione (sacra per presidenti come Scalfaro e Ciampi). Un conto è consultare, un conto è dover trattare e dover forzatamente raggiungere un compromesso (spesso al ribasso rispetto agli obiettivi). Giustissimo. 
Si potrebbe applicare la stessa cosa in materia di giustizia con CSM e ANM per favore ? Ascoltarli sì, obbedirgli no.



Concertazione e democrazia maggioritaria

 

Non è vero che il paese è attraversato da conflitti insanabili e pericolosi tra Stato e società, tra istituzioni politiche e «corpi sociali», con esiti inevitabilmente rovinosi. Più semplicemente, si sta affermando un nuovo sistema di relazioni tra governo e gruppi di interesse che è l’esatta conseguenza del passaggio ora in corso a una «democrazia maggioritaria». È inutile evocare sciagure ancora prima di capire il contesto. 

C’è un grande partito (di centro-sinistra) che si sta spostando sempre di più verso il centro, con politiche di riforma che non guardano più a una «classe» esclusiva di destinatari. L’assenza di un grande partito di centro-destra capace di arginarlo lo aiuta. Quando ci sarà – per chi crede nella democrazia bipolare è meglio che accada prima possibile – la dilatazione del Pd verrà frenata. Per ora Renzi ha davanti un’immensa prateria da conquistare. Nessuna nuova Dc, come molti con poca fantasia sostengono, e cioè un blocco monolitico e inamovibile di potere destinato a non avere alternative per cinquant’anni. Ma un partito a vocazione maggioritaria, esattamente com’era stato immaginato al momento della sua fondazione. 

E più il Pd invera la sua «vocazione maggioritaria» e si sposta verso il centro, più si rompe la cinghia di trasmissione con i sindacati verso sinistra. Ogni forma di collateralismo si spezza, perché un partito grande e robusto semplicemente non ha bisogno di stampelle. Lo ha mostrato bene uno dei più noti studiosi delle democrazie, Arendt Lijphart. Nelle democrazie di tipo proporzionale o consensuale, cioè con molti partiti, troviamo di solito pochi grandi gruppi di rappresentanza degli interessi, aiutati dallo Stato a rimanere tali e organicamente inclusi nel processo decisionale attraverso la concertazione. Al contrario nelle democrazie maggioritarie con pochi e grandi partiti tendono a rompersi i cordoni ombelicali con le parti sociali, i partiti di governo si assumono la responsabilità di decidere e di scegliersi di volta in volta gli interlocutori, i gruppi di interesse si disarticolano, perdono potere, o più semplicemente viene messa a nudo la loro reale rappresentatività. 

In questo scenario, il leader del Pd al 41% si muove come un caterpillar. Potendo disporre di un partito docile (al netto delle fragili battaglie delle minoranze) e di un consenso trasversale, non ha bisogno di nessuna alleanza organica né col sindacato né con Confindustria. Anzi, il sindacato è un ingombro e ai convegni di Confindustria meglio non metterci piede. «Il sindacato non deve fare le leggi», ripete Renzi in continuazione. Che vuol dire: la concertazione è morta e defunta, la sala verde la teniamo chiusa, o la apriamo per brevi scambi bilaterali. Non c’è più spazio politico per un sindacato-legislatore (come c’era in passato per le leggi-contratto su lavoro e welfare). Tu sindacato stai al tuo posto, io governo decido.  

Alle trattative sulle crisi aziendali il governo deve per forza andare, perché le procedure lo richiedono. Se no, forse, manco lì Renzi e i suoi si farebbero vedere. A Renzi non interessa, infatti, mettere il dito nella contrattazione aziendale, men che meno nella contrattazione collettiva; in Italia c’è un sistema piuttosto formalizzato, che nessuno vuole smantellare. Siamo ancora lontani dal volontarismo anglosassone, dai negoziati concessi da imprenditori benevoli che non portano necessariamente ad accordi (bargaining in good faith). Né gli interessa dividere il sindacato, come fece Berlusconi (quando Cisl e Uil firmarono il Patto per il lavoro e la Cgil no).  

A Matteo interessa dare l’idea di abbattere ogni intralcio sul suo cammino e non creare categorie privilegiate di riferimento. Lavoratori e imprenditori sono sullo stesso piano, entrambi lavoratori, o meglio entrambi cittadini, con problemi che via via vanno risolti con spirito pragmatico. Punto.  

Questo è un bene o un male? E’ di destra o di sinistra? Bisogna stracciarsi le vesti e fare a gara a dire che era meglio prima e che il futuro sarà una catastrofe?  

No, né l’una né l’altra alternativa. Questi processi sono parte del nuovo assetto che il sistema politico potrebbe assumere stabilmente, soprattutto se a questo contorno farà seguito la sostanza di riforme istituzionali chiuse in fretta. In una democrazia maggioritaria è possibile fare cose buone e cose cattive, c’è da sperare che il governo, senza troppa arroganza, sia all’altezza delle prime.

1 commento:

  1. Il punto è che in Italia manca ogni forma di "controllo del potere" durante l'esercizio, presente in quasi tutto il mondo (DA ULTIMO IN ALBANIA), in tutte le proposte di costituzioni repubblicane (dalla partenopea di Pagano alla romana) e radicata nell'antichità, fin da Creta e, soprattuto, da Roma, dove Cicerone sostenne che senza il Tribunato non ci sarebbe stata democrazia.

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