lunedì 3 novembre 2014

PERCHE' OBAMA PERDE (NONOSTANTE L'ECONOMIA USA SEMBRI IN RIPRESA)



Io ero perplesso su Obama quando il mondo salutava la sua elezione come l'evento del secolo. Tutti ad aspettarsi che il primo presidente di colore degli Stati Uniti avrebbe fatto miracoli, e talmente grande era la fiducia riposta in lui che gli diedero pure il nobel per la pace "in prospettiva futura", visto che non aveva fatto nulla per meritarlo (né poteva, essendosi appena insediato alla Casa Bianca !). 
Figuriamoci dopo sei anni, con la mediocrità mostrata in politica estera e le  preoccupazioni per i livelli raggiunti dal debito americano.
Però io non sono uno yankee, e la maggior parte dei cittadini di quel continente non danno, almeo al momento di votare, particolare peso alla politica estera, bensì al portafoglio. Ebbene, è un fatto che l'economia USA oggi ha numeri migliori di quella lasciata da Bush Junior, e questo nonostante la traversata nel deserto di una crisi economica devastante per tutto l'occidente e che in Europa ancora persiste. 
SI obietta che il risanamento americano è inquinato dalla montagna di liquidità sparsa dai presidenti FED, Bernanke in particolare, nonché dai tassi del costo del denaro addirittura di segno negativo. Tutto questo, sostengono in molti, porterà prima o poi ad un nuovo disastro finanziario. Sarà, ma la massa degli elettori non votano seguendo le cassandre economiche, ma su quello che percepiscono nel presente. E, allo stato, la borsa americana è più florida di quella ante 2007, la disoccupazione è scesa attorno al 6%, il PIL viaggia sul 3%. Tutti dati positivi. Allora perché  i sondaggi danno il presidente in un tale calo di popolarità da consigliargli di non farsi troppo vedere in questi giorni di vigilia delle elezioni per il Congresso e il Senato, ritenendo la sua presenza foriera di voti per i repubblicani e di danni per i democratici ? 
Ernesto Galli della Loggia dà, nell'editoriale sul Corsera che segue, delle risposte a questo quesito che mi convincono solo parzialmente.
Il professore e politologo attribuisce la crisi di consenso di Obama ai suoi insuccessi in politica estera, volendo però ricordare agli americani che questi sono il frutto delle loro richieste di disimpegno, dopo l'epoca della democrazia esportata con le armi di George W. Bush second, e quindi di cosa si lamentano ? L'errore del presidente è stato proprio quello di tener fede ad un impegno elettorale che si è rivelato sbagliato e perdente. 
Può essere. Ma restando fedele a quanto imparato negli anni da altri esperti del mondo americano, mi convince poco questa tesi che incentra la sconfitta annunciata (vedremo se i sondaggisti americani valgono più di quelli italiani) su questioni di politica estera. Io ritengo più verosimile la delusione forte dei fan della prima ora che veramente avevano immaginato una rivoluzione di modello europeo in materia di welfare (proprio nell'epoca in cui anche quello di questa parte dell'Atlantico è in flessione), uguaglianza sociale, intervento pubblico in economia. Queste cose ci sono anche state, una riforma del sistema sanitario, sia pure non così radicale come l'aveva promessa, il presidente l'ha fatta, e indebitando vieppiù la nazione ha sostenuto e recuperato posti di lavoro (sia pure più precari del passato, ma anche questo è un segno dei nuovi tempi, quelli della globalizzazione).  Cose che lo fanno detestare dai repubblicani e non lo fanno apprezzare abbastanza dai suoi. E allora il problema forse sta nelle eccessive aspettative suscitate, non nelle promesse mantenute (il disimpegno in politica estera, il riportare i soldati a casa) che pure si stanno rivelando sbagliate. 
Buona Lettura                                                                                                     
 


Il destino amaro di un presidente
di Ernesto Galli della Loggia



Quale deve essere in una democrazia il rapporto diciamo così di «dipendenza» tra un uomo politico e la maggioranza che lo ha eletto? Fino a che punto è giusto ed opportuno che questa lo condizioni e che egli se ne faccia condizionare? E ancora: l’obbligo per la politica della trasparenza e della legalità, può obbligatoriamente estendersi a tutti gli ambiti decisionali? Oggi, questi interrogativi, vecchi come la storia della democrazia, sono riproposti con forza dal destino politico sospeso sul capo del presidente degli Stati Uniti. Un destino non proprio smagliante visto che tutti gli osservatori sono d’accordo nel prevedere una forte avanzata dei repubblicani alle elezioni di mezzo termine che si terranno domani, e addirittura una probabile loro maggioranza al Congresso.
Contro un solo obiettivo importante centrato in politica interna (la riforma della Sanità) e un discreto successo nel rimettere in sesto l’economia del Paese, è soprattutto il bilancio della politica estera quello che appare più critico per Obama, quello sul quale gli elettori sembrano più intenzionati a sanzionare il presidente. E in effetti è difficile chiudere gli occhi di fronte a quanto è accaduto negli ultimi anni: il virtuale abbandono da parte degli Stati Uniti del loro ruolo di protagonisti assoluti della scena planetaria, la perdita di una parte notevole della loro capacità d’influenza e di leadership negli scenari regionali più critici, la difficoltà evidentissima da parte dell’amministrazione di costruire una qualunque visione complessiva, una strategia di medio-lungo termine, capace di rilanciare un rinnovato impegno globale di quella che ancora all’inizio del secolo sembrava l’unica, incontrastata, superpotenza.
Bene: è forse il caso di osservare, però, che questa ritirata, chiamiamola così, degli Usa dal mondo è stata compiuta da Obama in stretta obbedienza al mandato affidatogli dalla maggioranza dei suoi concittadini. Egli è stato eletto a suo tempo proprio con l’impegno di ridurre il coinvolgimento americano negli affari del pianeta (attribuito ad un errore di Bush): a cominciare dall’abbandono dell’Iraq, con tutte le conseguenze vicine e lontane (anche di immagine) che ha comportato. Era questo ciò che la maggioranza degli elettori voleva, ed è questo ciò che essa ha puntualmente avuto, anche se ora sembra essersi ricreduta. Il che dimostra, per tornare alla questione iniziale, che un uomo politico non deve essere agli ordini dei suoi elettori ed eseguirne pedissequamente i desiderata .

Il mandato elettorale risulta efficace, davvero produttivo di scelte politiche sensate, solo se è un mandato libero, senza vincoli. Per almeno due ottime ragioni: innanzi tutto perché sui singoli problemi concreti la grande maggioranza degli elettori si orienta perlopiù in base a stati d’animo aleatori, frutto molto spesso di impressioni e di emozioni più che di convincimenti o di conoscenze accurate; e altrettanto spesso senza essere in grado di valutare realmente gli effetti derivanti dall’una o dall’altra scelta. La seconda ragione è che altrimenti non potrebbe esservi alcuno spazio vero per la politica e per chi l’esercita in modo proprio: cioè con la capacità di combinare creativamente (cioè autonomamente) i dati della realtà, di vedere ciò che gli altri non vedono, di assumersi il rischio anche di contrastare l’opinione della maggioranza prendendo decisioni impopolari. Cioè di fare tutte le cose che da sempre caratterizzano la personalità politica di valore.
Dunque Obama si è comportato da politico autentico quando, per esempio, smentendo la volontà di legalità e di trasparenza dei suoi elettori e le sue stesse promesse, non ha chiuso il carcere di Guantanamo. Ma ha sbagliato quando, invece, non se l’è sentita di smentire la spinta isolazionistica di quei medesimi elettori, rifiutandosi di capire che forse quella spinta non andava assecondata. 

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