Michele Salvati è un intelletuale di sinistra, a suo tempo anche eletto in Parlamento nelle file dell' Ulivo, e tra i teorici della nascita del PD come nuovo soggetto politico, superamento della semplice somma dei due componenti originari, DS e Margherita.
Esperto anche di cose economiche, è uno di quelli che spera in Renzi, che oggi descrive come un "leader liberale della sinistra", spiegando perché. Francamente, sono parecchio perplesso, ma la chiave probabilmente sta nella precisazione : "liberalismo di sinistra".
Insomma, non un socialdemocratico, ma quello che in America, ma ormai anche in Europa, viene definito Liberal, e che in concreto corrisponde un po' ai democratici americani.
Comprensibile che ai "sinistri duri e puri" un simile leader faccia venire l'orticaria.
Un leader liberale
per la sinistra
michele salvati
(a) L’orientamento ideologico di fondo è una versione del liberalismo di sinistra, attento non solo alle «libertà da», ma anche ad effettive «libertà per», ad una ragionevole uguaglianza di opportunità per le persone socialmente più svantaggiate, nella misura in cui è possibile assicurarla dati i vincoli economici e sociali che oggi l’ostacolano. Vincoli che però lentamente possono essere rimossi. Si tratta dunque di un liberale, non di un socialdemocratico. Come liberale non arriva agli estremi della signora Thatcher («ci sono gli individui, una cosa come la società non esiste»), ma non intende legarsi agli interessi di gruppi sociali organizzati e alle loro rappresentanze. Neppure a quelle dei lavoratori dipendenti, ai sindacati, il nesso che invece caratterizza la socialdemocrazia: per lui sono tutti lavoratori — «padroni» e dipendenti — e l’importante è che tra loro ci siano rapporti cooperativi, che le loro capacità siano valutate e premiate, che l’occupazione si estenda e che nessuno si accaparri di rendite non meritate.
(b) Questo ha come conseguenza che egli si rivolge al Paese nel suo insieme, non ad una parte di esso. Vuole forse costruire un «partito della nazione»? Ma tutti i grandi partiti che competono per il governo non pongono limiti alle loro capacità di rappresentanza: chiunque accetti i valori che Renzi sostiene e creda nella sua capacità di attuarli può votare per lui, come in passato ha votato per Berlusconi chiunque ha creduto nei valori da lui un tempo sostenuti.
(c) Come ogni liberale Renzi è convinto che in larga misura efficienza ed equità viaggino insieme: l’Italia è ingiusta anche (e forse soprattutto) perché è inefficiente, perché le amministrazioni pubbliche non funzionano e non soddisfano le domande dei cittadini che ad esse si rivolgono, spesso i più bisognosi; l’occupazione e dunque il benessere ristagnano perché il mercato del lavoro funziona male, le imprese sono troppo piccole e inefficienti e anche le più grandi ed efficienti vanno incontro ai problemi recentemente esemplificati dal caso di Luxottica: è questa la tesi sostenuta da economisti liberali come Pietro Reichlin e Aldo Rustichini ( Pensare la sinistra , Laterza) che mi sembra Renzi abbia fatto propria.
(d) Renzi è anche convinto che l’Italia, le cui inefficienze e ingiustizie affondano in un lontano passato, richiede un lungo periodo di manutenzione straordinaria. Non c’è un singolo grande problema di riforma su cui concentrare le scarse risorse del Paese, ma numerosissime inefficienze e ingiustizie che l’affliggono, sia nel settore pubblico che nel privato: nel regime fiscale, nella scuola, nella magistratura, in quasi tutti i comparti della pubblica amministrazione, nella legislazione sul lavoro e sul welfare, nelle imprese e nel sistema finanziario, nel Mezzogiorno, tutti cantieri che Renzi ha aperto o intende aprire. Come poi un politico consapevole della difficoltà del compito che si è addossato riesca ad essere (o a sembrare credibilmente) così ottimista — un aspetto fondamentale della sua immagine pubblica — è problema che sfugge alle mie capacità di com-prensione. Ma io sono un intellettuale pieno di dubbi e di paure, lui un politico.
(e) Se le cose sono così difficili, la prima delle riforme è «la riforma del riformatore», un riassetto costituzionale, istituzionale ed elettorale che dia al governo le risorse amministrative, regolamentari e di consenso necessarie ad una lunga legislatura riformatrice guidata da un unico partito, libero dalla necessità di compromessi. Di qui la fragile alleanza sulla legge elettorale con Berlusconi, il quale dovrebbe avere lo stesso interesse di Renzi a frenare l’avanzata di Grillo. Olent ?, chiedeva Vespasiano contando i sesterzi ricavati dai suoi gabinetti pubblici.
Forse voglio leggere troppo nella svolta di Renzi: dopo questi pochi mesi di governo, non sono in grado di escludere che Renzi sia un personaggio di caratura politica e intellettuale più modesta di come l’ho rappresentato. E che di lui, più che prendere sul serio l’ideologia, sarebbe il caso di scrivere una «fenomenologia», come fece Umberto Eco per Mike Bongiorno più di cinquant’anni fa. In fondo — potrebbero dire coloro cui Renzi sta antipatico di pelle — le riforme che sta tentando sono assai simili a quelle che ha tentato, e in parte è riuscito ad attuare Monti. O a quelle di Letta: anche queste rispondevano ad un orientamento liberal-democratico. Vero. C’è però il «piccolo» particolare che, con la sua innovazione mediatico-organizzativa Renzi è riuscito a scalare e a far vincere (per ora alle europee) un partito che quelle riforme o le ostacolava, o le digeriva piuttosto male, ed ora, a seguito di una evidente mutazione politico-ideologica — o si tratta dell’italico «correre in soccorso del vincitore»? — sembra in grado di sostenerle con maggiore convinzione. Se sarà veramente così, lo vedremo tra non molto.
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