A Bruxelles hanno ripreso a bacchettarci sulla mole del nostro debito pubblico. Curioso che ce lo debbano ricordare loro quanto è alto, visto che gli 80 miliardi di interessi per mantenerlo li paghiamo noi...
Eppure è così. In questi anni di "risanamento", tutte le risorse drenate sono andate a ridurre il deficit, ma non a diminuire quella montagna che anzi con Monti, Letta e ora Renzi continua ad aumentare, causa la mancanza di crescita ma non solo. Ogni tanto qualcuno ne parla (Davide Giacalone credo abbia perso voce e speranza, dopo averlo ripetuto in tutte le salse) di vendere parte del patrimonio pubblico per ridurre in modo significativo il Debito. Si parla di recuperare qualcosa come 300-400 miliardi, in modo da riportarlo sotto il 100%. E' stato già fatto, con parziale successo. Poi abbiamo ricominciato a trascurarlo ed eccoci di nuovo qui.
Bisogna riprendere quella via, ricordandosi però che una volta venduti i "gioielli di famiglia", poi quella carta non si può più giocare. Insomma, non si vende il patrimonio per finanziare la spesa, ma per restituire parte dei debiti. Da questo deriverebbe un risparmio sugli interessi, che potrebbero essere utilizzati in parte sempre per continuare ad intaccare la massa debitoria, e un'altra per fini produttivi (abbassare le tasse, per me, ma anche fare investimenti che si confida utili all'occupazione ).
Intanto, sul Corriere, compare, ad opera del giornalista Sergio Bocconi, un utile bignami con la storia del nostro debito.
Il vizietto lo prendemmo negli anni '70 (quelli "formidabili" secondo Capanna e altri nostalgici dei loro 20 anni), per poi aggravarlo nei lustri successivi fino a ritrovarsi al bel punto che conosciamo.
Il circolo (vizioso) degli interessi
Un macigno da 80 miliardi l’anno
Il boom del debito
negli anni 80
Dal ‘95 al 2005
il difficile rientro.
Il calo rinviato Crescita nel 2015
Con le privatizzazioni lo stock aveva
sfiorato il 100% del Pil.
Il «minimo» nel 2007 al 103,3%,
poi è tornato a salire
Peccato originale, Moloch, Dna. In qualsiasi modo lo si voglia definire il debito pubblico italiano nasce e cresce con il Paese: quando il ministro delle Finanze Pietro Bastogi parla alla Camera il 29 aprile 1861 dice parole che oggi potrebbero essere definite di «stringente attualità»: «Perché l’Italia meriti il credito di tutta l’Europa deve cominciare a rispettare i debiti contratti...». Inizia così la lunga marcia del debito pubblico italiano che Quintino Sella riporta in sostanziale pareggio nel 1876.
Cent’anni dopo siamo ancora «virtuosi»: nel 1975 il debito ha già fatto un primo balzo ma è ancora pari al 56% del Pil. A pagare in parte le «spese» è chi incassa interessi reali negativi di sette punti. Ed è il caso di sottolineare il costo del debito perché in futuro, cioè in questi ultimi dieci anni, sarà invece questo un autentico macigno per l’Italia, soprattutto in presenza di una crescita del Pil nominale pari a zero e negativa in termini reali. Circa 80 miliardi di media l’anno che contribuiscono a depotenziare qualsiasi politica economica.
Sono interessanti a questo proposito le analisi condotte da esperti come Roberto Artoni (che ha scritto «Il debito pubblico in Italia dall’unità ad oggi») professore ordinario di Scienza delle finanze alla Bocconi. Perché è nell’equilibrio fragile fra le varie componenti macroeconomiche che si viene formando il disequilibrio che farà esplodere il debito pubblico italiano. Nel 1970 la situazione della finanza pubblica è «normale»: la spesa è pari al 33% del Pil e il debito al 37,1%. Seguono dieci anni di governi Rumor, Colombo, Andreotti, Moro, Cossiga, Forlani, nei quali «turbolenze» sociali, rallentamento dell’economia, costituzione di un welfare in parte «elettorale» e alta inflazione conducono un primo ribaltamento della situazione. Nel 1980 la spesa è così aumentata di otto punti al 40,8% del Pil mentre le entrate, cioè il gettito fiscale, cresce della metà. Il debito è 56,1%, il peso degli interessi passa dall’1,3 al 4,4% ma con i prezzi che aumentano al 21,1% l’anno i tassi reali sono negativi del 5,8%.
Iniziano gli anni del craxismo e la spesa si impenna ulteriormente portandosi nel 1985 al 50% del Pil. Sono però anche anni caratterizzati da un’inversione di tendenza nelle politiche monetarie internazionali che si inaspriscono a partire dall’America reaganiana. Nell’85 in Italia, (nonostante il buon andamento dell’economia) il debito sul Pil «vola» all’80,5% ed è importante osservare che se il totale della spesa pubblica cresce di cinque punti, gli interessi raddoppiano all’8,4% del Pil con tassi reali che adesso favoriscono i sottoscrittori dei titoli di Stato perché sono positivi e pari al 4,5%. Il macigno pesa.
Il trend prosegue negli anni successivi e il debito che nel ‘90 è al 94% nel 1992 supera la soglia del 100%: siamo al 105%. Cambiano i governi, da Andreotti ad Amato e Ciampi, scatta l’adesione al trattato di Maastricht (che entra in vigore nel novembre del ‘93) e cadono anche i tassi e il loro peso relativo su spesa e Pil. Nel ‘92-93 cominciano anche le privatizzazioni che vedono Romano Prodi prima alla guida dell’Iri e poi nel ‘96 all’esecutivo. Le cessioni di banche e aziende di Stato con lo smantellamento delle partecipazioni statali «fruttano» complessivamente 127-130 miliardi.
Grazie dunque al combinato disposto di aumento delle entrate, riduzione delle spese, ritorno all’avanzo primario e un forte calo del peso degli interessi (che passano dal 10,1% nel ‘95 al 3,2% nel Duemila) il rapporto fra debito e Prodotto interno lordo scende dal 121% del ‘94 al 108 del 2001. Per toccare il «minimo» nel 2007 al 103,3% quando al governo c’è di nuovo Prodi.
Ebbene: come e perché in meno di dieci anni si torna al 134%? L’avanzo primario è pari in media al 2%, la spesa, al netto delle cessioni pubbliche, resta intorno al 50% del Pil e anche le entrate non registrano rilevanti variazioni. Ma mentre il Pil cresce zero in termini nominali e ha segno meno in termini reali, gli interessi rappresentano in media sempre il 5% circa del Pil. Il debito, nonostante i tassi bassi e lo spread relativamente contenuto, costa. Tanto.
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