Il Natale è andato, si approssima la fine dell'anno, con inevitabili pensieri su bilanci e prospettive. Potrebbe essere quindi interessante la lettura dell'articolo di Donato Speroni sul Corriere, che, numeri alla mano - dati del Censis ma non solo - spiega come la crisi dei consumi italiani non sia ciclica ma strutturale : in questi 5 anni abbiamo mutato la nostra propensione allo spendere, e questo rimarrà, anche quando le cose tornassero finalmente a migliorare.
E' il dato più interessante in un'analisi che contiene diverse osservazioni ormai arcinote (la necessità di riforme e di che tipo), e auspici non condivisibili (il reddito di cittadinanza). Senza per forza diventare dei fanatici della "decrescita felice", di un neo pauperismo, noi italici abbiamo forse compreso che avere armadi, scarpiere pieni, mangiare spesso fuori, non è poi indispensabile. Anzi, esagerando, è inutile quando non dannoso.
Insomma, spendere tanto per farlo, che è stata una dimensione nuova acquisista soprattutto negli anni '80 e poi proseguita per lustri, sembra al tramonto non solo nelle tasche degli italici, ma anche nella loro testa.
E in sé, non mi sembra un male.
Buona Lettura
Non ci sono scorciatoie: gli italiani non torneranno ai consumi precrisi
Chiedo scusa se comincio da una premessa un po’ noiosa e didascalica, ma talvolta è necessario rimettere in fila alcuni concetti: la crescita di un sistema economico dipende da un aumento della domanda. Solo una maggiore richiesta di beni e servizi può attivare un incremento della produzione.
La rapidità di risposta dipenderà dalla situazione del sistema produttivo: dall’esistenza di capacità inutilizzata (se gli impianti esistenti sono utilizzati appieno, la maggiore domanda nel breve termine produrrà solo inflazione) e dalla competitività, perché in un sistema aperto con produzioni non competitive c’è il rischio che la domanda venga soddisfatta con maggiori importazioni.
La contabilità nazionale ci dice che la domanda può essere di tre tipi: per consumi pubblici e privati, per investimenti pubblici e privati, oppure provenire dall’estero (esportazioni).
In Italia ci troviamo in questa situazione:
- Le esportazioni vanno discretamente (+1,4% in valore nei primi nove mesi dell’anno), ma non bastano a riattivare l’economia.
- Gli investimenti privati languono perché gli imprenditori cercano di ottimizzare i profitti ma non si fidano ad effettuare nuovi investimenti, né si può contare su un flusso di capitali dall’estero. Gli investimenti pubblici sono bloccati per limiti di bilancio e sono comunque di lentissima attuazione, per ragioni di burocrazia e fondati timori di corruzione.
- I consumi privati sono fermi perché le famiglie sono riluttanti a spendere. I consumi pubblici devono essere compressi per la spending review.
Non è andata così. L’iniziativa governativa ha avuto buoni effetti elettorali ma scarsissimi effetti sulla dinamica del Prodotto interno lordo. Gli italiani preferiscono tenersi la propria liquidità sotto il metaforico materasso anziché spenderla e non è facile che cambino atteggiamento. Diversi sintomi, anzi, fanno pensare che siamo di fronte a un cambiamento strutturale dei comportamenti di consumo. L’ultimo rapporto del Censis (un rapporto molto ricco, nonostante le difficoltà dell’istituto per il cambio di direzione e la crisi delle commesse pubbliche) dedica a questo fenomeno un’ampia analisi nel capitolo sui soggetti economici, significativamente intitolata “Vivere a consumo zero”. Secondo il Censis, la mancanza di fiducia è la prima ragione che induce al risparmio: solo una famiglia su tre guarda al futuro con ottimismo.
Ma c’è di più. Dice il Censis:
Una crisi così prolungata ha chiaramente reso il downsizing dei consumi quasi strutturale, con conseguenze non difficili da immaginare. Nell’arco degli ultimi sei mesi del 2014, il 62% delle famiglie ha indicato di aver ridotto pranzi e cene fuori casa, il 58% cerca di effettuare piccoli risparmi su spese per cinema e svago, il 47% ha cercato di ridurre gli spostamenti con i mezzi propri pr cercare di risparmiare sulla benzina e quasi il 44% ha modificato i propri comportamenti alimentari al fine di ridurre gli sprechi, spendere meglio e risparmiare.Non stiamo parlando soltanto di chi è a rischio di povertà: l’istituto presieduto da Giuseppe De Rita indica che “il 77% delle famiglie italiane, se disponesse di redditi o di risorse liquide più elevate, le metterebbe da parte e l’effetto sulla propensione al consumo sarebbe nullo”.
Ciò che colpisce è che questo tipo di tendenza alla ridefinizione al ribasso delle spese riguarda milioni di famiglie e che tale tendenza non è il fenomeno del momento, ma è in atto da almeno cinque anni, con un effetto di ridimensionamento e di crisi dei consumi da considerarsi ormai strutturale. Gran parte delle famiglie, in sostanza, ha quasi incamerato “l’effetto recessione”, persistente da troppi anni e ha rimodellato su basi nuove i propri comportamenti di consumo non solo eliminando il superfluo, ma iniziando a considerare inutile anche ciò che potrebbe non esserlo. Modificare questo approccio molto diffuso non sarà facile, e con il passare del tempo anche specifiche politiche di intervento potrebbero essere inefficaci.
Il Censis non è solo in questa diagnosi. Numerose inchieste giornalistiche segnalano che è in atto una rivoluzione dei consumi. Marco Belpoliti, sulla Stampa del 26 ottobre, segnala che “Usare senza possedere” è “la rivoluzione dei 30enni”:
Il pauperismo del 21° secolo, incarnato dalla generazione del Millennio, è composto di bassi comuni materiali e alti consumi immateriali.Il cambiamento di comportamento è facilmente riscontrabile guardandoci intorno. Si cambia l’auto con minore frequenza, nell’acquisto degli elettrodomestici si guarda maggiormente alla solidità e alla durata, nel vestiario si segue meno la moda o se lo si fa è prevalentemente attraverso acquisti a basso costo. La stessa diffusione di cellulari e computer sostituisce passatempi più costosi e le comunicazioni hanno costi calanti.
È improbabile che questo atteggiamento possa cambiare nell’immediato futuro, anche perché il progressivo aumento della sensibilità ambientale si traduce in un’etica di contenimento dei consumi superflui. Non si tratta di inneggiare alla decrescita felice (giustamente presa di mira dal libro di Luca Simonetti recensito sul Corriere da Pierlugi Battista), ma di prendere atto di cambiamenti faticosi ma inevitabili . Non torneremo a “un passato di stenti e di vita miserabile” (cito Battista), ma certamente cambierà il nostro modo di usare le risorse del Pianeta, a cominciare dai comportamenti di chi finora ha consumato di più: i cittadini dei Paesi più ricchi, Italia compresa.
E allora? Se non ci sono scorciatoie percorse pompando i consumi, su che cosa deve far leva il governo di Matteo Renzi per rimettere in moto l’economia? Penso che non ci sia alternativa al più classico acceleratore indicato da tutti i libri di economia per creare nuova ricchezza: gli investimenti. Il rinnovo degli impianti migliora la competitività; gli interventi su scuola e ricerca valorizzano il capitale umano, altrettanto importante del capitale economico; le opere pubbliche (si pensi al consolidamento del suolo, non alla cementificazione!) potrebbero rimettere in moto l’edilizia, motore di ogni svolta congiunturale.
Per agire sugli investimenti privati, però, è necessario dare certezza agli operatori italiani ed esteri con le benedette riforme: della burocrazia, della giustizia, del lavoro, del fisco. Per attivare gli investimenti pubblici, oltre a battere il pugno a Bruxelles e a Berlino per le necessarie risorse finanziarie, si devono attivare procedure che garantiscano rapidità ma anche trasparenza: un ossimoro difficile da sciogliere.
Riforme, semplificazione burocratica, lotta alla corruzione sono dunque, con il consenso dell’Europa, gli ingredienti indispensabili per la crescita attraverso nuovi investimenti. La svolta potrebbe essere favorita destinando più risorse per garantire anche ai più deboli una maggiore sicurezza, con migliori ammortizzatori sociali e magari reddito di cittadinanza.
A quel punto anche la fiducia delle famiglie potrebbe “cambiar verso”, con un atteggiamento di consumo magari più austero rispetto ai tempi precrisi, ma comunque più fiducioso verso il futuro.
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