Avevo letto con preoccupazione e perplessità l'articolo, peraltro sobrio e pacato, dell'Avv. Romanelli, membro della nuova giunta dell'Unione Camere Penali che sul Garantista aveva commentato la prima approvazione da parte della Camera del testo della nuova legge sulla custodia cautelare osservando come non si trattasse di chissà quale rivoluzione, ma di aggiustamenti, precisazioni.
In realtà la legge esistente, emanata nel 1995, certi principi li aveva già sanciti con molta chiarezza. Solo che molti giudici non li applicano, e si cerca, attraverso l'obbligo di motivazioni più articolate e specifiche, di costringerli a farlo.
Sarà sufficiente ? La Maiolo dubita fortemente, e noi con lei.
Custodia cautelare bella riforma: peccato sia uguale a quella del 1995
Quando, tra non molto, Matteo Renzi annuncerà che, grazie a lui e al suo governo, il Parlamento ha approvato una nuova riforma del processo penale, e in particolare è intervenuto sulla custodia cautelare, in modo che il carcere senza processo per l’indagato sia solo l’extrema ratio, ebbene sappiate che mente. Non c’è nessuna riforma che tale possa chiamarsi nel provvedimento approvato dalla Camera il 4 dicembre in terza lettura e che a breve diventerà legge al Senato. Tutti i principi enunciati in questo provvedimento esistono già nella legge numero 332, approvata l’8 agosto del lontano 1995, quando il Parlamento improvvisamente si svegliò, compresi i partiti della sinistra più giustizialista.
Il risveglio avvenne dopo il decreto del governo Berlusconi del 13 luglio 1994 (che fu chiamato “decreto Biondi” dal nome del ministro di giustizia) che, in piena bufera Tangentopoli e per porre argine all’uso perverso del carcere preventivo, era intervenuto a disciplinare per una serie di reati gli arresti domiciliari in luogo della detenzione in carcere. Quel decreto fu ritirato dopo che i quattro pm di Milano, con barba lunga, occhiaie e sapiente regìa, si presentarono in televisione a dire che senza manette non potevano più lavorare. E in seguito, dopo il disconoscimento di paternità da parte del ministro agli Interni Maroni e il ritiro del decreto (anche se alcuni di noi l’avrebbero poi rivotato), nessuno di quegli indagati fu riportato in carcere. Il che significa che forse la custodia cautelare non era così indispensabile. Ma intanto il risultato era raggiunto. E poco dopo cadde anche il governo Berlusconi. Due piccioni con una fava. A quel punto, tutti i partiti si mossero e corsero a presentare proposte di legge per riformare la custodia cautelare. Gli abusi di quegli anni erano sotto gli occhi di tutti, e altrettanto le morti per infarto e i 41 suicidi, tra cui aveva molto colpito la morte di Cagliari, cui non era stata mantenuta la promessa di scarcerazione e il successivo suicidio di Gardini, che evitò in quel modo tragico il previsto arresto. La discussione, alla Camera e al Senato, fu serrata e importante, improntata al massimo del garantismo.
Sul fatto che la custodia in carcere prima del processo debba rappresentare l’extrema ratio sono tutti d’accordo. E così anche sul fatto che il pm debba fornire al giudice gli elementi su cui la richiesta si fonda, ma anche, a pena di nullità, tutti gli elementi a favore della persona indagata e le memorie dei difensori. E anche le motivazioni del giudice che dispone la misura in carcere devono basarsi su elementi di fatto che la giustifichino in concreto. Si rafforza la figura del giudice anche attribuendo a lui l’obbligo del primo interrogatorio, sottraendolo al pubblico ministero. Si fissano i principi dell’articolo 274 del Codice di procedura penale: per l’acquisizione e la genuinità della prova devono esserci “situazioni di concreto e attuale pericolo”. E il pericolo non può essere individuato nel rifiuto da parte dell’indagato di parlare o di confessare. Per il timore di reiterazione del reato, questo deve essere desunto da “comportamenti o atti concreti”. Lo stesso per quel che riguarda il pericolo di fuga, che deve essere “concreto”. Anche l’articolo 275 è chiarissimo: al comma tre dice chiaramente che si va in carcere solo quando ogni altra misura risulti inadeguata. E’ il famoso concetto dell’extrema ratio, tanto strombazzato in questi giorni per pubblicizzare la nuova “riforma”.
L’avvocato Romanelli ha ieri spiegato con molta competenza su queste colonne perché quella di oggi non è una riforma, ma un insieme di piccolissimi aggiustamenti. Che senso ha infatti aggiungere l’aggettivo “attuale” a “concreto” al pericolo di reiterazione del reato? La verità è che non si vuole affrontare il vero problema, e cioè che la legge del 1995 è in gran parte disattesa o elusa. E’ inutile infatti –per fare un piccolo esempio – che il primo interrogatorio in carcere venga svolto dal Gip se questi comunque arriva in auto con il pm, suo collega e spesso amico. E’ inutile che si dica che la gravità del delitto non deve incidere sulla custodia cautelare (lo dicevamo anche vent’anni fa), così come la mancata confessione, se poi Massimo Bossetti è in carcere da oltre cinque mesi, in palese violazione della legge.
E allora? Prima di tutto occorre togliersi dalla testa che una buona riforma porti sempre con sé buoni risultati. Secondariamente dobbiamo sempre ricordare che i magistrati sono un popolo di conservatori, che ancora non hanno digerito il nuovo codice di procedura penale del 1989. Infine, è sotto gli occhi di tutti che chi non applica la legge non avrà alcuna sanzione. E questo è il motivo per cui il sindacato delle toghe non vuole che questo punto riguardi la legge sulla responsabilità civile. E non saranno certo le finte riforme a risolvere i problemi. O forse, dopo l’approvazione del nuovo provvedimento da parte del Senato, Massimo Bossetti sarà restituito alla sua libertà?
Nessun commento:
Posta un commento