giovedì 15 gennaio 2015

DRAGHI PRESIDENTE ? SOLO SE FOSSE UNO E TRINO



Da ieri, e per le prossime settimane, uno dei temi da pasto e da salotto sarà il toto presidente, con indicazione della propria personale preferenza. Per me, in astratto, è semplice : Mario Draghi. Che però vorrei uno e trino, perché mi piacerebbe che fosse presidente della Repubblica, ma ancor di più del Consiglio e a patto che restasse a capo della BCE. Fossi uno dei renziani, convinti o di necessità, arrossirei a voler paragonare lo spessore del loro uomo a quello che ha casa a Francoforte. Già solo per famiglia, studi e serietà, il confronto è ingeneroso. Dopodiché ci sono i fatti, e la maggioranza delle persone, ancorché non tutte ovviamente (l'unanimità non c'è mai), riconoscono a Draghi di essere l'uomo che tiene in piedi l'Euro e con esso l'eurozona. Anche i critici peraltro ammettono che se lo spread è rientrato, lo si deve a lui (altro che l'altro Mario, Monti). E tutto questo gestendo sì un potere importante, ma nel momento peggiore della storia d'Europa e d'Occidente, e con nemici niente affatto da poco : i tedeschi.
Il 22 gennaio vedremo se il dado del Quantitave Easing in salsa europea sarà tratto, ma sulla schiena dritta di Draghi nessuno potrà mai dire nulla.


Draghi, la ferita dei sospetti tedeschi
«Mio padre mi insegnò il rigore»
 



DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BERLINO Il 22 gennaio, la Banca centrale europea diventerà maggiorenne. Ha poco meno di 17 anni — è nata il 1° giugno 1998 — ma sta per lasciare la famiglia dei tutori e diventare indipendente. Mario Draghi, il suo presidente, la sta portando verso la maturità di chi risponde a se stesso e non alla volontà della madre più ingombrante, si chiami pure Germania, o della madre naturale, sia essa l’Italia: questo passaggio lo ha spiegato, difeso ed esaltato in una lunga intervista che viene pubblicata oggi da uno dei giornali più influenti della Germania, il settimanale Die Zeit . Parole rivolte innanzitutto all’opinione pubblica tedesca che spesso lo sospetta di essere un «agente italiano» nel corpo della banca dei 19 membri dell’Eurozona. Un’accusa, dice, che lo ferisce.
Giovedì prossimo, appunto il 22 gennaio, il Consiglio dei governatori della Bce deciderà quasi certamente di dare il via al tanto chiacchierato Quantitative Easing (QE) sovrano, cioè all’acquisto massiccio di titoli pubblici di tutti i Paesi dell’euro. Potrà essere fatto in diversi modi: si vedrà. Di certo, sarà un passo fondamentale sotto due aspetti. Il primo, di merito, consiste nel fatto che si tratta dell’intervento praticamente di ultima istanza, nel senso che poi non ce ne sono altri, per dare un colpo forte alle aspettative di deflazione, cioè di calo dei prezzi, che se diventassero stabili e di lungo periodo schiaccerebbero per anni a venire la crescita economica dell’area euro. Con conseguenze gravi anche sul piano politico.
Il secondo, di metodo ma non meno rilevante, è questo: nonostante politici, economisti e opinione pubblica della Germania siano contrari al QE sovrano e nonostante la Germania sia l’azionista più rilevante della banca centrale, la Bce darà la massima prova di indipendenza decidendo a maggioranza (quindi non all’unanimità), pensando agli interessi dell’intera Eurozona, non a quelli di un Paese o dell’altro.
Nell’intervista a Die Zeit , Draghi dice di essere ferito dall’etichetta di «agente» dell’Italia, di non accettarla ma di volere rispondere con i fatti. E il fatto è che il mandato della Bce è quello di garantire la stabilità dei prezzi, la quale al momento non c’è. Se infatti il target è un’inflazione annua inferiore ma vicina al 2% e al momento è invece negativa per lo 0,2% (a dicembre, anche a causa del crollo del prezzo del petrolio), la differenza è di almeno due punti percentuali: se questo scostamento fosse all’insù, nessuno avrebbe da criticare un aumento dei tassi d’interesse; se è all’ingiù, vale la stessa regola, solo che i tassi sono già a zero e quindi servono anche misure non convenzionali, ad esempio l’acquisto di titoli dello Stato come forma di creazione di liquidità. Nell’intervista, Draghi spiega che «il rischio di una deflazione è ancora basso ma maggiore di un anno fa»: le aspettative di inflazione dell’anno a venire erano storicamente in media dell’1,77%, nel 2013 sono scese all’1,08% e ora sono allo 0,37%. E la stessa caduta delle attese si verifica sui cinque e sui dieci anni prossimi.
Sulla base di questi numeri, il presidente della Bce dice che la scelta del QE è fatta per l’intera Eurozona, non per favorire Paesi economicamente deboli (ad esempio l’Italia) o per punire i risparmiatori tedeschi che non amano i tassi troppo bassi. Ammette di non essere riuscito ancora a spiegarlo a tutti ma ribadisce che non è questione di premiare uno o punire l’altro. Tutti sanno, dice, che nell’Eurozona questo è il momento per «una politica monetaria espansiva che accompagni la crescita». E aggiunge che tutti i membri del Consiglio dei governatori della Bce sono interamente d’accordo con la necessità di realizzare il mandato di stabilità dei prezzi (il quasi 2%).
Qui si apre un nodo importante. Giovedì prossimo, tra i membri del Consiglio — 19 governatori nazionali e sei membri del Consiglio esecutivo — qualcuno voterà contro: quasi certamente due tedeschi — Jens Weidmann e Sabine Lautenschläger — e probabilmente altri. Draghi ammette la presenza di opinioni diverse su come realizzare il mandato alla stabilità ma, aggiunge, le differenze dovrebbero essere limitate: «non abbiamo a disposizione possibilità infinite».
Si vedrà il 22. Fatto sta che l’intervista rientra nelle iniziative di preparazione del terreno per le scelte di grande rilievo che la Bce farà quel giorno. Argomentazioni rivolte soprattutto alla Germania, sospettosa di quello che accadrà: ancora ieri, il ministro delle Finanze di Berlino Wolfgang Schäuble ha sostenuto di non vedere pericoli di deflazione. Draghi dice di avere un buon rapporto di lavoro con Angela Merkel, anche se non lo definirebbe un’amicizia. E sa che anche in Italia e in altri Paesi europei ci sono pregiudizi nei confronti della Germania. Ma si rivolge anche ai governi del Sud del continente, per dire che la politica monetaria da sola non basta, che servono le riforme e che il tutto funziona solo se aumenta la produttività e non si crea un livello insostenibile di indebitamento. Il tutto in un quadro di euro «irreversibile»: realtà positiva anche per Paesi come la Grecia, che se dovesse abbandonarlo dovrebbe comunque fare le stesse riforme e in più, a causa della svalutazione, dovrebbe alzare i tassi d’interesse e probabilmente soffrire ancora più di oggi.
Un Draghi europeo che non rinnega di essere italiano, di avere studiato negli anni della contestazione studentesca romana (con convinzioni liberal-socialiste) e di tornare volentieri in Italia. Ma che allo stesso tempo ha in mente prospettive più ampie. Grazie alla vita non sempre facile. Al padre che parlava tedesco quasi come l’italiano e che gli ha insegnato il valore del «duro lavoro» e del seguire le proprie convinzioni «con coraggio». Grazie agli studi in America, all’Mit con cinque professori Premi Nobel per l’Economia: Franco Modigliani, Paul Samuelson, Bob Solow, Robert Engle, Peter Diamond. E al fianco di studenti come Paul Krugman, altro Nobel, e Ben Bernanke, presidente dell’americana Fed fino a pochi mesi fa.
Italiano, europeo, internazionale anche a costo di portarsi dietro da un paio di decenni il nomignolo «Mister Qualchealtroposto». Torna in Italia quando il lavoro alla Bce è finito. Viaggia perché questo è il compito del presidente della seconda banca centrale del mondo. Ma considera Francoforte, sede della banca, il centro della politica monetaria e finanziaria dell’Europa e la sua posizione un lavoro da portare fino in fondo, tanto da rifiutare ogni possibilità di succedere a Giorgio Napolitano in Italia. Tutto nonostante le critiche che gli arrivano da destra e sinistra (non si vincono elezioni evocando il suo nome, lo sa).
La settimana del passaggio alla maturità e alla piena indipendenza della Bce è iniziata. Draghi sta per fare il passo: vuole che funzioni.

Danilo Taino

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