Condivido in parte il sentimento di Emanuele Trevi che sul Corriere di oggi scrive, contro corrente, di provare simpatia per quell'attempato satiro di Strauss-Kahn, il cui processo per sfruttamento della prostituzione dovrebbe essere arrivato alla stretta finale.
Io non arrivo alla simpatia, ma certamente non faccio parte dei moralisti sessuofobi che vorrebbero vedere tradotta la loro riprovazione finto-etica in una severa condanna penale. Da quello che leggo, la cosa che non mi convince dell'ex potente libertino francese, che se non avesse avuto la mazzata di New York oggi siederebbe all'Eliseo al posto di Hollande, è una certa predilezione per la sottomissione delle partners femminili, raggiunta attraverso atteggiamenti quantomeno bruschi, se non violenti. Lo si evince dalle modalità descritte da alcune testimonianze, che l'imputato non smentisce apertamente, affermando che lui aveva un'altra percezione della cosa...
Ciò posto, sarò sempre contrario che la gente e i giudici approfittino del processo penale per dare lezioni di vita morale agli altri.
Processo Strauss-Kahn
la gogna mediatica
dell’ultimo libertino
Più passa il tempo, più provo simpatia per Dominique Strauss-Kahn, il vecchio satiro sporcaccione sempre alla gogna, sempre minacciato da ulteriori rivelazioni sulla sua vita scandalosa e nuovi processi. Spero che se la caverà. Sono tra coloro che pensano che mai un uomo o una donna dovrebbero essere messi alla sbarra, se adulti e consenzienti, per aver comperato o venduto piacere sessuale, organizzando festini o qualunque altra cosa volessero fare. E per togliere di mezzo l’ipocrisia, aggiungo che se qualcuno si incarica di organizzare uno di questi festini, la legge non ci dovrebbe vedere nessun male, perché ogni commercio umano si avvale di mediatori, e appunto di organizzatori. Poi, è ovvio, esistono l’opinione pubblica, l’opportunità di svolgere un ruolo ufficiale, e un’infinità di altre complicazioni e di sfumature, comprese le celebri sfumature di grigio.
Ma cosa significa esattamente questo processo che, comunque vada, sarà ricordato e farà da esempio? Indossando i nobili ma vetusti panni del «libertino», DSK ha scelto di farne una specie di battaglia di cultura, ma la strategia, alla luce dei tempi che corrono, mi sembra poco meno che suicida. Non sono tempi felici per il libertino. Nel suo duello con la società, che dura da secoli, qualche simpatia palese o segreta riusciva sempre a guadagnarsela. Eppure, la sua era una sfida mortale.
Ridotto all’essenza, il libertino è un individuo che assegna al piacere un ruolo esistenziale che altri non sono in grado o non vogliono assegnargli. In questo senso il libertino è un anarchico, un sovversivo, uno che mette sul trono della realtà qualcosa che non dovrebbe starci, che nessuna ideologia politica o tradizione religiosa approverebbe. La sua sconcertante e variopinta figura attraversa la Storia come un’anomalia, una possibilità, un sogno ad occhi aperti che mina i fondamenti stessi della società. La società è il perfetto contrario del libertino: esiste in virtù di una regolamentazione, di un addomesticamento del piacere, e del senso di virtù che ne deriva. Non è che la società voglia produrre monaci che si ritirano nel deserto scambiando le donne per diavoli. Ma elabora un modello di vita affettiva e di piacere sessuale molto stabile, fondamentalmente monogamico, nel quale molto spesso la fedeltà usurpa i diritti della felicità. Fuori dal cerchio magico della coppia, si è sempre guardati con sospetto.
La felice poligamia del libertino è interpretata alternativamente come un affronto, o una malattia. Ma la posizione di DSK si aggrava quando alla sua conclamata mancanza di una moralità sociale si aggiunge il fatto di essere ricco di suo, e di aver maneggiato soldi in quantità inconcepibili ai profani. Come il suo archetipo, l’aristocratico Don Giovanni, l’ex direttore del Fondo monetario internazionale ha fatto del suo stesso prestigio un terreno di caccia, uno strumento di seduzione. Magari di tanto in tanto avrà pensato di ravvedersi, magari si è sempre accettato per quello che è: fatto sta che la sua natura ha sempre prevalso non solo sul buon senso, ma anche sul decoro che appare connaturato a certe responsabilità e a certi mestieri. Fate nascere un uomo nel genere nell’epoca dell’indignazione e della superiorità morale sbandierata come argomento politico, e avrete il bersaglio di tutti i rancori, un capro espiatorio così perfetto che sembra partorito dai cartoni animati più che dalla realtà umana.
Ma proprio perché DSK è un uomo finito, è legittimo chiedersi: è più pericoloso lui o un tribunale che non potrà evitare, nelle sue decisioni, che l’ombra lunga del giudizio morale si intrufoli nel codice penale, che dovrebbe essere fedele a criteri ben diversi?
Con DSK, a subire una condanna sarebbe un certo tipo d’uomo, che può anche fare schifo come a me è simpatico. Ma quando una sentenza ratifica un giudizio morale, allora sì che bisogna preoccuparsi, perché la giustizia sta perseguendo un sogno intollerabile di sacrificio e di purificazione collettiva. Un desiderio che Philip Roth ha giustamente definito «ripugnante».
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