mercoledì 4 febbraio 2015

IN SVIZZERA GLI ITALIANI COME I CINESI "SOTTOPAGATI, RUBANO IL LAVORO"



La notizia era apparsa ieri, e un po' di amaro me lo aveva lasciato. In un paese della Svizzera, Claro, nel Ticino, i negozi esibiscono un bollino nel quale si assicura che "il personale è residente". Tradotto, no stranieri e segnatamente no italiani. IL sindaco del paesino che si è fatto promotore della non simpatica iniziativa spiega che non ce l'hanno con l'etnia, non si tratta di razzismo, ma solo di trattenere le risorse, e quindi l'ostilità è nei confronti dei frontalieri che arrivano, lavorano e poi portano le paghe in Italia, senza spendere in loco. Oltretutto gli italiani, pur di lavorare, accettano la decurtazione delle paghe - come la manodopera cinese, si osserva - e questo ci rende ancora più invisi.
E la Svizzera è un paese ricco...



«Qui il personale è residente» 
 A Claro, in Ticino, un bollino pensato per aziende e negozi
Il sindaco: «Non è razzismo, ma trasparenza. Noi un modello»
 


DAL NOSTRO INVIATO CLARO (Svizzera) C’è chi considera etico certificare che i suoi prodotti hanno una provenienza «doc»; chi invece si fa vanto di lavorare rispettando l’ambiente. Nel comune di Claro da qualche giorno è titolo di merito per aziende e negozi dimostrare con tanto di «logo» da esporre a consumatori e clienti che tra i propri dipendenti ci sono residenti svizzeri e non manodopera importata dall’Italia. «Lo so, l’iniziativa inevitabilmente apparirà antipatica specie se vista da parte italiana. Ma noi l’abbiamo adottata in un’ottica di trasparenza. Il razzismo non c’entra niente»: Roberto Keller, sindaco di Claro, indossa la toga dell’avvocato del diavolo e prova a mettere ordine.
Il luogo, innanzitutto: Claro è un comune di 2.700 abitanti a nord di Bellinzona, sotto i primi contrafforti delle Alpi. Il confine italiano non è vicinissimo, una sessantina di chilometri, ma l’onda lunga del fenomeno che da un decennio sta trasformando il mercato del lavoro in Canton Ticino arriva fin qui. Anche nel 2014 il numero dei pendolari italiani che varcano ogni giorno la frontiera per lavorare accettando paghe più basse rispetto agli elvetici è cresciuto del 5,3%, sfondando il tetto delle 60 mila unità (nel 2001 erano la metà). E benché il tasso di disoccupazione ufficiale sia poco più del 4%, benché le imprese locali ripetano a ogni occasione che i lavoratori provenienti da oltreconfine sono indispensabili, la vulgata degli «italiani che rubano il lavoro» monta sempre più.
A Claro si sono inventati il marchio delle imprese «patriottiche», se così le possiamo chiamare. Il Comune ha lanciato una settimana fa una campagna in cui non solo invita le aziende di ogni settore a privilegiare residenti svizzeri nelle assunzioni ma anche a rivendicare la scelta esponendo un logo con la scritta «noi impieghiamo personale residente». Corollario: sul logo compare anche una sorta di pagella in cui l’imprenditore indica qual è la percentuale (da 20 a 100) di elvetici al lavoro nella sua azienda; sconti fiscali o altri premi non sono ammessi dalla legge, il titolo è puramente onorifico. Una sorta di «white list» commerciale, la definiscono in municipio, in contrapposizione alla «black list» dei Paesi considerati complici degli evasori fiscali in cui il governo italiano continua a includere la Svizzera.
«Il problema lavoro per noi era gravissimo ed è peggiorato dopo che franco svizzero ed euro hanno raggiunto la parità — racconta il sindaco Keller — ma si sa che di fronte a vantaggi di costo le imprese scelgono sempre di risparmiare. Però molte persone da tempo mi ripetono: sarei disposto a pagare merci o servizi qualche franco in più se almeno sapessi che vanno ad arricchire l’economia ticinese e non quella italiana. E così è nata l’idea della campagna a favore delle assunzioni locali. Claro è un comune piccolo, non sposteremo certo gli equilibri ma lanciamo un segnale: l’invito è destinato anche alle aziende dei centri più vicini al confine perché facciano altrettanto».
Obiezione scontata: un segnale del genere presta il fianco all’accusa di xenofobia... «Obiezione respinta — ribatte Keller — perché l’appello è ad assumere residenti, che non significa necessariamente svizzeri ma anche stranieri che vivono stabilmente in Ticino. È una questione innanzitutto di equilibrio: da quando il numero dei frontalieri è esploso sono nate storture nel mercato del lavoro. Ma anche di trasparenza: il negozio o l’azienda espone il logo e si assume il rischio, il cliente può fare la sua scelta. Non sta avvenendo la stessa cosa in Italia con i prodotti doc o la concorrenza sleale dei cinesi?».
I cinesi stavolta siamo noi, sono i lavoratori italiani che accettano impieghi in Svizzera per un salario più basso del 15-20% rispetto agli elvetici e che ormai sono arrivati a occupare un quarto dei posti di lavoro disponibili in Ticino. Il problema insomma tiene banco ben al di fuori dei piccoli confini di Claro: dopo la tempesta valutaria di due settimane fa i sindacati hanno cominciato a denunciare casi in cui gli imprenditori hanno decurtato la busta paga degli italiani (ultimo caso in un’azienda di autotrasporti); in più ieri si sono incontrati per la prima volta la presidente della Confederazione elvetica Simonetta Sommaruga e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. Oggetto del vertice: la decisione svizzera di porre un tetto all’arrivo di immigrati e lavoratori stranieri così come stabilito dal referendum del 9 febbraio 2014. La volontà popolare fa però a pugni con i trattati internazionali sottoscritti da Berna con Bruxelles e la soluzione è in alto mare. E allora non resta che affidarsi alle soluzioni «fai da te», come a Claro.

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