venerdì 1 maggio 2015

LA (NON) CONVINCENTE DIFESA DI MICHELE SALVATI DEL PRORENZUM

 

Tra gli osservatori di sinistra che scrivono sul Corriere della Sera, quello che apprezzo è Michele Salvati, per il suo ragionare pacato e chiaro.
Non si smentisce nemmeno sulla querelle della legge elettorale, ma i suoi argomenti pro non mi convincono, e mi piacerebbe che l'autore dell'articolo che trovate di seguito, avesse risposto   all'editoriale scritto appena ieri da Michele Ainis   ( http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2015/04/perche-lostia-consacrata-del-prorenzum.html ), senza citare la bocciatura solenne del da oggi ex direttore del Corsera, Ferruccio de Bortoli, che liquida l'Italicum come "legge sbagliata",  e il suo autore un "maleducato di talento, che disprezza le istituzioni e mal sopporta le critiche "(!!!??!!).
Mi dispiace peraltro   registrare delle affermazioni pretestuose, che francamente non mi sarei aspettato da Salvati. 
In primo luogo, il ripensamento di Forza Italia, che all'epoca del patto del Nazareno era favorevole e ora non più. Intanto, la premessa già spiega : il tempo del Nazareno. Berlusconi non apprezzava il premio al solo partito e non alla coalizione (fatto su misura per l'attuale pd renziano, e che se ci fosse stato nel 2013 avrebbe dato la maggioranza a Grillo...), tantomeno le soglie di sbarramento così basse (concessione fatta da Renzi ad Alfano, ma in realtà, come notano i critici più attenti, un grande favore a se stesso, favorendo la dispersione dell'opposizione).  Da ricordare a Salvati che l'originale progetto approvato alla Camera, non aveva nessuna di queste due novità, apportate al Senato...
Alla fine, pur di tenere in piedi l'intesa generale, Berlusconi cedette ed accettò le modifiche. Dopodiché venne il "pacco" renziano del Quirinale, il Cav. capì che del toscano non ci si poteva fidare, e il Nazareno venne giù. E con esso la disponibilità a votare una legge mai piaciuta. Salvati non legge il camerlengo, né credo si sprecherebbe a rispondermi. Però QUESTA è la verità dei fatti e, ripeto, è deludente che uno come lui la travisi.
Ciò posto, questa tardiva infatuazione di quelli di sinistra per il "decidere" anziché il "concertare" mi farebbe anche piacere - se non sapessi che è contingente ed opportunista - , ma passare ad un simil presidenzialismo, e comunque ad un "premierato" con la sola legge ordinaria è una piccola truffa, trattandosi di un vero e proprio stravolgimento dell'assetto costituzionale, come ben ci ricorda Ainis. SI può fare, certamente, ma seguendo le regole di quel tipo di modifica.
Infine, non sentiamo mai una risposta seria al problema della legittimazione dell'"uomo forte" che si vuole solo al comando. 
L'Italicum dà poteri pressoché assoluti ad un partito che in potenza - ma la realtà non è tanto diversa - rappresenta un quarto dell'elettorato, e che potrebbe arrivare(improbabile) al 40% solo grazie all'astensione elevata. Siccome poi così non sarà, ci sarà il ballottaggio, e lì il gioco all'asso pigliatutto sarà ancora più evidente. A me va benissimo il decisionismo (certo, mi piacerebbe vederlo applicato a cose essenziali come il taglio del debito pubblico, della spesa, delle tasse..., invece che nei duelli rusticani tutti interni a Montecitorio e al PD) , però legittimato da un vero consenso popolare. Non cerco plebisciti bulgari, ma un 40% VERO, che rappresenti almeno una minoranza qualificata degli elettori, bè quello sì.  
Alla fine, mi rispondono quelli che ammettono che la legge è "tutt'altro che perfetta", bisognava decidere, non si poteva continuare nella palude...
Ed è per questo che mi devo far andar bene una legge fatta male, di parte, e concettualmente sbagliata ? 



Il governo del leader 
non minaccia la democrazia
 

Questa fase della vita politica italiana — il «tutti contro Renzi» sul tema della legge elettorale — sembra la meno adatta a riflessioni pacate sulle radici lontane della crisi che stiamo vivendo.
Per semplificare il tentativo, non mi soffermo sul perché siano contro Renzi movimenti o partiti populisti e antieuropei: esclusi dal gioco, ogni pretesto è buono per aggredire il governo. E lascio anche da parte quel partito, Forza Italia, che ai tempi del patto del Nazareno Renzi pensava di coinvolgere nel gioco, come rappresentante di un elettorato con il quale poteva instaurarsi una dialettica democratica simile a quella che si svolge in altri grandi Paesi europei, centrodestra contro centrosinistra. A Berlusconi non è riuscito il tentativo (ma c’è mai stato?) di «trasformare il carisma in istituzione», di stabilizzare e dare una consistenza organizzativa al suo partito e un indirizzo politico al suo popolo: compito certo difficilissimo in Italia, ma che ad altri leader carismatici è pur riuscito altrove. Perché non sia riuscito a lui per ora nessuno l’ha spiegato meglio di Giovanni Orsina ( Il berlusconismo nella storia d’Italia , Marsilio) e devo lasciare il lettore in sua compagnia.
Vengo allora al Pd. Nessuno, credo, si lascia ingannare dalla maggior correttezza della polemica — i toni di Salvini non si adattano a una polemica interna, e poi tradizione e cultura ancora un poco contano — ma l’ostilità e l’insofferenza della minoranza per il segretario sono ancor più intense di quelle manifestate dai partiti di opposizione, cosa che spesso avviene nei conflitti in famiglia. E nessuno, credo, è convinto dall’idea che queste difficoltà siano dovute a incomponibili conflitti sul merito delle riforme istituzionali proposte da Renzi, come invece la minoranza vorrebbe far credere. Tanti commentatori ci hanno già ricordato, con nomi e date, che una concezione di democrazia maggioritaria come quella adottata dall’attuale proposta di legge elettorale era già discussa e largamente accettata all’interno dei partiti dell’Ulivo, e che l’idea di un Senato senza potere fiduciario e invece con una funzione di rappresentanza delle autonomie era un obiettivo sul quale esisteva un ampio accordo. Anche sul rafforzamento del ruolo del presidente del Consiglio, pur temperato da istituzioni di garanzia che il progetto Renzi lascia inalterate nei loro poteri, il consenso nei partiti dell’Ulivo, poi confluiti nel Partito democratico, era molto ampio. E lascio da parte l’incredibile polemica sulle preferenze: contro le preferenze era schierato l’intero Pds-Ds, e una parte non piccola di Margherita.
Facciamo allora un piccolo esperimento intellettuale e poniamoci la seguente domanda ipotetica: se le riforme che ora vuol fare Renzi le avesse proposte Bersani con l’avallo del vecchio gruppo dirigente ex comunista ed ex sinistra dc — alla luce della storia che ho brevemente ricordato non è un’ipotesi inverosimile, le premesse c’erano tutte — ci sarebbe forse stato uno scatenamento polemico di questa intensità? Che arriva a riesumare il vecchio slogan di «minaccia alla democrazia» già usato ai tempi di Berlusconi? Quali tabù ha toccato Renzi per suscitare questa reazione? Non può trattarsi solo della comprensibile resistenza di un ceto dirigente sconfitto: in un partito sano la sconfitta si archivia e ci si prepara a una rivincita in futuro, confidando che i fatti e la propria azione politica dimostrino l’erroneità della linea adottata dal leader. In gioco c’è qualcosa di più grosso, il passaggio da una concezione di partito a un’altra. Da un partito di notabili in servizio permanente effettivo, in cui la strategia del partito emerge da accomodamenti e mediazioni continue, a un partito del leader il quale giudica quando il tempo delle mediazioni è finito e l’ulteriore dilazione nella decisione contrasterebbe con l’efficacia della decisione stessa. Un partito che non guarda prevalentemente al proprio interno, ma guarda alla sua azione di governo e al consenso che questa può riscuotere nel Paese. Se si aggiunge che — mirando al successo esterno e non alla conservazione delle oligarchie e dei santuari ideologici cui prestano osservanza — il leader può essere indotto a forti modifiche delle strategie adottate in passato, si vedono bene i tabù che Renzi ha abbattuto e si capisce la violenza della reazione: l’opposizione è stata sbalzata in un mondo radicalmente estraneo a quello cui si era assuefatta.
È il nuovo mondo che Mauro Calise spiega assai bene nel suo saggio sull’ultimo numero de «il Mulino» ( La democrazia del leader ) e di cui consiglio una lettura attenta, ai dissidenti del Pd e non solo. Il governo del leader non è una minaccia per la democrazia — non siamo a Weimar — ma un tentativo di conciliare democrazia e capacità di decisione, nella consapevolezza che la vera minaccia della democrazia è la sua incapacità di decidere.

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