domenica 5 luglio 2015

RICOLFI : L'AUSTERITA' CHE FUNZIONA E QUELLA NO. QUELLA CON MENO STATO FUNZIONA

 Risultati immagini per referendum greco

Nel giorno del referendum greco, con il dibattitto sull'Europa matrigna (lo è) e i greci spendaccioni (lo sono) al calor bianco, ho la fortuna di avere una GRANDE e AFFETTUOSA amica, Caterina Simon, che mi fa da sentinella sul Sole 24 ore dove scrive il grandissimo Luca Ricolfi.  A suo tempo il politologo scriveva su La Stampa e io mi abbonai anche per un po' al giornale torinese SOLO per la presenza di quella firma (ne apprezzavo poche altre : Giovanni Orsina, Roberto Toscano, Nerozzi nello sport). Ricolfi non scrive più sul quotidiano di Marchionne (troppo critico con renzino ? sarebbe troppo miserevole ) e collabora col Sole 24 ore, che però, confesso, io non leggo. Ecco, Caterina evidentemente sì e avendo in comune il favore per il bravissimo professore di scienze sociali e numeri applicati alle stesse, è già la seconda volta che lodevolmente mi avverte di un suo intervento.
L' articolo è magistrale, riassumendo in modo estremamente chiaro la maggior parte dei grandi difetti della costruzione europea. Li trovate praticamente tutti ! 
Dopodiché Ricolfi spiega che la storia dell'austerità, arcigna e inutile, finisce per essere un alibi comodo per troppa gente, greci in primis, ma certamente non solo loro. 
In realtà, i famosi "compiti a casa", ognuno li fa un po' a modo suo, con risultati diversi.
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Ma siamo sicuri che è tutta colpa dell’austerità?

 
Sparare sull’Europa è diventato uno sport nazionale, anzi sovranazionale, vista la crescente popolarità dei movimenti anti-euro nella quasi totalità dei Paesi del Vecchio Continente. E le ragioni per essere critici con l’Europa, non come ideale ma come insieme di istituzioni che ci hanno governati negli ultimi vent’anni, non mancano certo.  
Dell’Europa non piacciono la mancanza di una voce comune in politica estera, l’impotenza e le divisioni di fronte ai flussi migratori, la tendenza a sommergere il mercato interno di regolamenti, l’incapacità di difendere le imprese dai marchi contraffatti (soprattutto dalla Cina). Dell’Europa, soprattutto, non piace l’impronta germanica, quella visione un po’ ragionieristica e statica della politica economica, per cui le regole su debito e deficit pubblici sono sacre, mentre mancano regole altrettanto stringenti, ad esempio, sugli squilibri commerciali. L’Europa, in altre parole, sarebbe ostaggio del mercantilismo della sua economia più forte (quella della Germania), che come un usuraio accumulerebbe crediti e condurrebbe alla rovina i suoi debitori.
Ma l’accusa principe all’Europa, quella su cui convergono tutti, dagli anti-europei doc alla sinistra più o meno assennata, è di aver imposto l’austerità ai propri popoli, una ricetta che chiaramente non ha funzionato, e anzi avrebbe contribuito a ridurre in miseria un popolo come quello greco. Ebbene, personalmente condivido la sostanza di quasi tutte le critiche rivolte all’Europa, ma su quest’ultima, quella di essere responsabile delle sofferenze di interi popoli, o anche semplicemente del loro essere intrappolati nella stagnazione, ho qualche dubbio. E questo per due ordini di motivi.

Il primo è un motivo di natura logica, già evocato in passato da Alberto Alesina, se la memoria non mi inganna. E cioè: il mero fatto che una politica non sortisca i risultati desiderati non prova che la politica opposta li avrebbe ottenuti, o non ne avrebbe ottenuti di ancora peggiori. È il caso di ricordare che, nel 2007-2008, i cosiddetti Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna) avevano accumulato ogni sorta di squilibrio ma croeconomico.
Irlanda e Spagna erano afflitte da una gigantesca bolla immobiliare, l’Italia da un debito pubblico superiore al 100%, il Portogallo da un enorme deficit degli scambi con l’estero, la Grecia da tutti e tre i mali precedenti. L’idea che una politica espansiva, magari promossa e guidata dalla Germania, sarebbe stata in grado di correggere squilibri così imponenti, senza provocare gravi effetti collaterali (o meglio: senza ampliare alcuni di tali squilibri), mi pare leggermente azzardata.
Il secondo, e più fondamentale, motivo per cui trovo poco convincente la demonizzazione dell’austerità europea è che, di fatto, non esistono né un’unica politica economica dell’austerità, né tantomeno un unico esito di tale politica. Se guardiamo a quel che effettivamente è avvenuto nei cinque Piigs è arduo non constatare due fatti: primo, ogni Paese ha interpretato le direttive europee a modo suo, talora deviando significativamente dalle prescrizioni; secondo, i risultati delle politiche attuate nei vari Paesi sono radicalmente diversi.
L’Irlanda, ad esempio, ha rifiutato di innalzare l’imposta societaria (come invece le veniva consigliato, per aumentare il gettito fiscale), ha diminuito la pressione fiscale complessiva, ha ridotto la spesa pubblica corrente: in breve, ha notevolmente diminuito l’interposizione pubblica nell’economia. Per il 2015 l’Ocse prevede un tasso di crescita del Pil irlandese del 3-4%, il più alto della zona euro (e fra i più alti di tutta Europa).
Correzioni in parte simili sono avvenute in Spagna, con il taglio dell’imposta societaria e il contenimento della pressione fiscale (ma con un aumento della spesa pubblica corrente). Per il 2015 l’Ocse prevede un tasso di crescita del 3%.
Più pigri nell’aggiustamento sono risultati Portogallo e Italia. L’interposizione pubblica, diminuita in Irlanda e aumentata di poco in Spagna, è aumentata di 6 punti in Portogallo e di 8 in Italia. Quanto agli scambi con l’estero, il saldo è tornato positivo in entrambi i Paesi fin dal 2012-2013. L’Ocse prevede una crescita 2015 un po’ sopra l’1% in Portogallo e un po’ sotto l’1% in Italia.
E in Grecia?
Sì, è vero, l’austerità è fallita. Ma bisogna anche capire in che senso, e fino a che punto. Perché, per molti aspetti, le politiche attuate dai governi greci sono l’esatto opposto di quelle messe in atto da Irlanda e Spagna: oggi in Grecia l’imposta societaria è più alta che all’inizio della crisi, la pressione fiscale complessiva è aumentata di 5 punti, la spesa pubblica corrente di altrettanti, il che significa che l’interposizione pubblica è salita di circa 10 punti, ovvero più che in Italia e Portogallo, che già si erano mosse in modo più statalista di Irlanda e Spagna. Per non parlare del saldo dei conti con l’estero: fra i 5 Piigs la Grecia è l’unico che continua ad avere un saldo negativo. In concreto significa che si continua a produrre meno di quanto si consuma o si investe. Era così quando la Grecia è entrata nell’Ue, ma è sconcertante che sia ancora così oggi, quando tutti gli altri Piigs hanno riportato in equilibrio i conti con l’estero. Coerentemente con quel che (non) si è fatto in questi anni, l’Ocse prevede, per Atene, un tasso di crescita vicino allo zero.

Forse, sul nodo bruciante dell’austerità, dovremmo cominciare a considerare una chiave di lettura diversa, meno semplicistica. C’è un’austerità che ha funzionato e può funzionare, quella dell’Irlanda, e c’è un’austerità autolesionista e che non può funzionare, quella della Grecia. Le differenze sono molteplici, ma il loro nucleo è semplice: chi riesce a ridurre la presenza dello Stato, fatta di tasse, spese e burocrazia, può sperare di tornare a crescere, chi non ha il coraggio di farlo e punta tutte le sue carte sul prolungamento indefinito della solidarietà europea, difficilmente potrà raccogliere i frutti dell’austerità, per quanto grandi siano i sacrifici che impone ai propri cittadini.

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