mercoledì 30 settembre 2015

DI UN MILIONE DI POSTI DI LAVORO BRUCIATI, RECUPERATO UN TERZO. MA LA QUALITA' DEI CONTRATTI E' BASSA

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Il Job Act, allo stato, è una delle poche vere riforme che siano passate dal "FATTO!" annunciato dal gargantua sedente a Palazzo Chigi, alla realtà effettiva delle cose. Non è un'opera compiuta, ci sono ancora diversi pezzi da ultimare ed inserire. Però delle novità ci sono, come il forte indebolimento del famigerato (per la sua applicazione, più che per il principio in sé) articolo 18, la decontribuzione finalizzata ad incentivare le nuove assunzioni a tempo indeterminato. Quanto ciò ha inciso sulla ripresa dell'occupazione ? Sicuramente in una qualche misura sì, anche se, lo sappiamo, le avvisaglie di ripartenza dell'economia - con conseguente, benefico rimbalzo sull'occupazione - sono soprattutto dovute alla iniezione di liquidità che giunge dalla BCE con il QE in salsa europea.
Il problema, evidenzia Luca Ricolfi nell'articolo che segue, è nella qualità dei nuovi contratti (ma sempre meglio un lavoro precario che nessun lavoro, direbbe monsignor De Lapalisse ) e nella coperta corta, a questi bassi livelli di crescita, tra produttività e occupazione.
Buona Lettura

OCCUPAZIONE O PRODUTTIVITA' ?


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Leggendo le recenti statistiche del mercato del lavoro, molti osservatori si sono fatti la seguente idea: il Jobs Act sta lentamente cambiando la qualità dell'occupazione, favorendo i passaggi da tempo determinato a tempo indeterminato, ma non sta creando nuovi posti di lavoro.

Se però solleviamo lo sguardo dalle statistiche dell'ultimo mese o dell'ultimo trimestre, e proviamo a guardare le cose in una prospettiva un po' più lunga, il panorama che ci si presenta ci riserva qualche sorpresa.

La crisi ha distrutto circa 1 milione di posti di lavoro, ma dalla fine del 2013 l'occupazione totale ha ricominciato a salire, prima sotto Letta (2013), poi sotto Renzi-1 (2014), poi sotto Renzi-2 (2015, vigente la decontribuzione). Del milione di posti di lavoro bruciati nel quinquennio 2008-2013 ne abbiamo ricuperati 351mila (più di 1/3), di cui 139mila sotto Letta, 88mila sotto Renzi-1, e altri 124mila sotto Renzi-2.
Difficile dire se i 124mila posti di lavoro creati dall'inizio del 2015, prima sotto la spinta della decontribuzione, poi (dal 7 marzo) sotto la spinta del Jobs Act, siano merito delle nuove regole, o costituiscano un semplice rimbalzo, che compensa il rallentamento di fine 2014 (presumibilmente dovuto all'attesa degli sgravi).

Quello che però è certo è che, da circa 2 anni, il trend dell'occupazione totale è tornato ad essere positivo, e il suo ritmo medio è stato di 40-50mila posti a trimestre. Non è molto, ma è già qualcosa: se continuasse così, in 3-4 anni torneremmo ai livelli pre-crisi.
Il quadro si fa decisamente meno confortante se, dalla quantità di posti di lavoro, passiamo a considerare la loro qualità. Il peso dei contratti a termine era del 13-14% prima della crisi, era al medesimo livello sotto Monti e sotto Letta, e tale è rimasto sotto Renzi. Gli ultimi dati (2° trimestre 2015, vigente il Jobs Act) segnalano semmai una leggera tendenza all'aumento rispetto a un anno prima. Quanto all'altro indicatore di precarietà, il peso del part-time involontario sul part-time totale, la situazione è semplicemente drammatica.
Prima della crisi i lavoratori dipendenti che lavoravano a orario ridotto per necessità e non per propria scelta erano circa il 40% del totale, oggi sfiorano il 70%. Il loro peso sull'insieme dei lavoratori dipendenti era già in aumento prima del 2007-2008, è cresciuto smisuratamente durante gli anni della crisi, e ha continuato a farlo sotto Letta e sotto Renzi, sia prima sia dopo il Jobs Act.
Dunque: il numero di occupati sta aumentando, ma la qualità dei contratti di lavoro no.
Contemporaneamente, come abbiamo segnalato in un precedente articolo, la domanda di lavoro sembra avere cambiato radicalmente le proprie preferenze. Nel corso della crisi i lavoratori italiani hanno perso colpi rispetto agli stranieri, i giovani rispetto agli anziani, gli uomini rispetto alle donne, i meno istruiti rispetto ai più istruiti, gli occupati del sud rispetto a quelli del centro-nord.
Questa profonda ristrutturazione della domanda di lavoro, tuttavia, si è accompagnata ad una marcata riduzione degli investimenti, quasi che il rilancio dell'economia italiana potesse poggiare esclusivamente su una diversa selezione della forza lavoro, più attenta alle doti di preparazione, esperienza, affidabilità, disponibilità al sacrificio.
Diversamente che in passato (anni '60), la ricetta non ha funzionato. E la prova è molto semplice, anzi impietosa: comunque la si misuri, la produttività del lavoro è sostanzialmente ferma da una quindicina di anni. Cambiare drasticamente la composizione della forza lavoro e ridurre la quota di Pil destinata agli investimenti hanno avuto il solo effetto di allargare drammaticamente il divario di produttività fra l'Italia e gli altri paesi.
Ecco perché, oggi, la politica economica si trova di fronte a un dilemma vero. Il nostro tasso di occupazione resta, nonostante i modesti progressi degli ultimi due anni, uno dei più bassi fra i 34 paesi Ocse.

Ciò suggerirebbe di puntare tutte le carte sull'aumento dei posti di lavoro regolari, in modo da riassorbire i tre grandi mostri del sistema-Italia: il lavoro nero, la disoccupazione, l'esercito degli scoraggiati. Se però guardiamo alla dinamica (ma sarebbe meglio dire alla “statica”) della produttività del lavoro, il suo terrificante ristagno da inizio millennio farebbe pensare che la priorità numero uno dell'Italia sia piuttosto l'incentivazione degli investimenti, unica via per interrompere il ristagno della produttività.
Naturalmente, entrambe le politiche comportano i loro rischi: se si incentiva la creazione di posti di lavoro diminuisce la convenienza relativa dell'investimento, e la dinamica della produttività può peggiorare ulteriormente. Se si incentivano gli investimenti i guadagni di produttività possono rendere superflua una parte della forza lavoro, aggravando il problema occupazionale.
Il nocciolo del rebus italiano è proprio qui. Le imprese vorrebbero più produttività, perché altrimenti non riescono a stare sul mercato. I lavoratori, effettivi e potenziali, vorrebbero più occupazione, perché il 25% delle famiglie non arriva alla fine del mese. Hanno ragione entrambi. Il problema è che, per raggiungere tutti e due i risultati – più occupazione e più produttività – il Pil deve crescere di almeno il 2-3% l'anno: un obiettivo da cui, temo, siamo ancora lontani.
 

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