mercoledì 30 dicembre 2015

RICOLFI CONTRO QUELLI DELLA DITTATURA DELLA "PIU' FORTE MINORANZA"

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Dopo Angelo Panebianco, un altro pezzo da novanta delle firme del Corsera si schiera a favore dell'Italicum. Parlo di Paolo Mieli. L'ex direttore del Corriere della Sera è un personaggio di cui riconosco cultura e intelligenza ma che umanamente stimo poco ( fu uno dei corsari della stampa ai tempi di tangentopoli, complice della procura milanese, e a differenza di altri, come per esempio Sansonetti, non ha mai fatto autocritica per quel triste tempo di servaggio al nuovo potere giudiziario nascente). Politicamente, nasce nella sinistra massimalista, per poi convertirsi con l'età. Ma in genere, chi nasce tondo non muore quadro, e pare che Mieli si attenga, in un certo suo assertivismo snob, tipico di certa sedicente intellighenzia di sinistra, perfettamente a questo vecchio adagio popolare. E' una cosa che rileva non solo e direi non tanto da quello che scrive, ma DA COME lo fa. Il tono, sicuro e un pizzico arrogante, alla Travaglio per intenderci.
Ovviamente, tra lui e, che so, un Luca Ricolfi, scelgo tutti i giorni il secondo e la domenica due volte.
E così, l'unico merito dell'editoriale scritto da Mieli nell'edizione di qualche giorno fa è la citazione del bravo professore torinese, colpevole di criticare l'italicum per difetto di rappresentativa.
Mieli e Panebianco fanno parte del partito del "governare uber alles", e fino ad un certo punto potrei anche comprendere e persino, un minimo, condividere, dopo una prima repubblica che, negli ultimi 20 anni, ha contato più governi che legislature, e lustri recenti di "concertazione", con compromessi sempre al ribasso.
Quindi cercare di incentivare la governabilità e arginare la frammentazione politica li ritengo obiettivi giusti.
Ma non a tutti i costi. Oltretutto, da combattere, come fanno altrove, più con soglie di sbarramento significative - il 5% - che non con premi di maggioranza monstre, tenendosi la  foglia di fico del "diritto di tribuna", favorendo l'entrata in parlamento di cespuglietti irrilevanti ai fini delle decisioni.
La sensazione, del resto alimentata da certe esternazioni sfuggite a  certi (ex ?) amici della fronda piddina, è che in realtà la democrazia è sistema che va stretto, con questa insulsa pretesa del governo della maggioranza, irraggiungibile nelle società moderne, ma soprattutto con il voto che vale uno per tutti, e con i "migliori" (ovviamente "loro"...) messi sullo stesso piano del volgo ignorante.
Ora, io sono un liberale e penso anche conservatore, quindi non è che il suffragio universale sia una mia bandiera interiore.
Però, se la democrazia è il male minore, e forse lo è, allora bisogna cercare di rispettarne i principi cardine. Quindi, chi prende il potere, lo deve fare ottenendo il consenso della maggioranza degli elettori.

Tra gli autori sicuramente letti da Mieli c'è Alexander Tocqueville che metteva in guardia dalla dittatura della maggioranza. Per uno dei padri riconosciuti dello Stato Liberale il timore verso la democrazia era che, col principio della maggioranza, potessero essere compressi diritti individuali considerati inalienabili.
Qui siamo addirittura alla predicazione della dittatura della "più forte minoranza" !!
Senza soglie minime di partecipazione al voto, e con il premio di maggioranza che scatta comunque, o al primo turno (col 40% dei partecipanti) o al ballottaggio (anche se a votare ci vanno, per assurdo, solo i miei genitori e zii), con il monocameralismo, avremmo un esecutivo ed un parlamento monolitici, in grado di approvare qualsiasi riforma e rappresentando il 20% dei cittadini !!??
Ma così però sappiamo la sera chi ha vinto !
Anche lanciando la moneta lo sapremmo, risparmieremmo i soldi delle campagne elettorali e poi...il Fato almeno è cieco.




SE L'EUROPA FA I CONTI CON TRE POLI
Luca Ricolfi

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Forse nei paesi europei del Nord il problema non è ancora evidente, ma nei paesi mediterranei sì: le fratture che dividono gli elettori sono almeno due. C’è la vecchia frattura fra destra e sinistra, sempre meno nitida. E c’è la nuova frattura, sempre più profonda, fra chi ancora si riconosce nel progetto europeo e chi vorrebbe buttarlo alle ortiche.

Il segno più riconoscibile del cambiamento sono i nuovi partiti anti-europei di massa: Syriza in Grecia, Podemos in Spagna, il Fronte nazionale di Marine Le Pen in Francia, ma anche il Blocco di sinistra in Portogallo che alle ultime elezioni (ottobre 2015) ha superato il 10% dei consensi.


E in Italia?
In Italia i partiti esplicitamente anti-europei sono addirittura tre: Movimento Cinque Stelle, Lega Nord, Fratelli d’Italia. Messi insieme raccolgono circa il 50% delle preferenze espresse.
Questo significa che, ormai, i nostri sistemi politici stanno diventando tripolari, con un terzo polo anti-europeo contrapposto ai due poli tradizionali della destra e della sinistra? Dobbiamo pensare che il conflitto politico in Europa sarà sempre più una lotta a tre, fra destra, sinistra e anti-europei?
Propendo per il no, e questo per due distinti motivi.
Il primo è che l’ostilità nei confronti delle istituzioni europee è un sentimento molto diffuso anche nelle formazioni politiche più tradizionali. Un partito di destra tradizionale come Forza Italia non si può certo definire europeista. Quanto ai partiti di matrice socialista, la critica dell’austerity europea è ormai diventato il loro leitmotiv, se non il loro principale tratto comune. Persino un partito ben poco socialista come il Partito democratico renziano non manca, all’occorrenza, di cavalcare gli umori anti-europei dell’elettorato. Tutto ciò fa sì che, quando esistono, le forze politiche esplicitamente anti-europee finiscano per raccogliere qualche simpatia anche fra gli elettori dei partiti fondamentalmente europeisti.

A quanto pare la frattura fra destra e sinistra e quella fra amici e nemici dell’Europa si intersecano, e possono dar luogo a quattro segmenti di elettorato, e non solo a tre: ci sono i popolari e i socialisti, ma chi è anti-europeo può esserlo da destra (tipicamente, perché vuole meno immigrazione) o da sinistra (tipicamente, perché vuole meno austerità).

Ma c’è anche un secondo motivo per cui non è detto che i sistemi politici europei evolvano inesorabilmente verso qualche forma di tripolarismo. Lo ha illustrato assai bene su questo giornale Roberto D’Alimonte commentando il recente esito delle elezioni spagnole. Dalle urne sono usciti ben quattro partiti importanti, fra cui due tradizionali (Popolari e Socialisti) e uno nettamente anti-europeo (Podemos), ma il sistema politico – pur avendo cessato di essere bipartitico – non è per questo diventato tripolare, né tantomeno quadripolare. E questo per il semplice motivo che i primi due arrivati sono i Popolari e i Socialisti, ossia due forze politiche classiche, e anche il terzo e il quarto arrivato (Podemos e Ciudadanos) hanno una collocazione politica chiara sull’asse destra-sinistra, con Podemos più vicino ai Socialisti e Ciudadanos più vicino ai Popolari. Se la legge elettorale prevedesse un ballottaggio fra i due principali vincitori (Popolari e Socialisti), l’elettorato sarebbe chiamato a scegliere fra due alternative politiche relativamente chiare e ben delineate, e gli elettori anti-europei (Podemos) si limiterebbero, come è fisiologico in democrazia, a votare l’alternativa meno sgradita. In questo senso è giusta la posizione di chi vede nell’Italicum un buon antidoto al caos parlamentare che attende la Spagna.

Ma in Italia?

In Italia tutto fa pensare che il nostro sistema politico non sia più bipolare, anche ammesso che lo sia mai stato. Da noi un polo anti-Europa molto robusto esiste già, ed è guidato dal Movimento Cinque Stelle, che non è classificabile né come una formazione politica di destra, né, a dispetto dei desideri della sinistra antirenziana, come una formazione politica di sinistra.
È vero, semmai, che il populismo anti-europeo di Grillo esercita qualche attrazione anche negli elettorati di forze politiche tradizionali come Fratelli d’Italia, Lega Nord, Sel, nonché nel variopinto mondo dei nemici di Renzi “da sinistra”.

Insomma, se domani ci fossero elezioni i poli sarebbero tre e non due. A meno che la destra si inabissi come l’isola di Atlantide, lo scontro politico vedrà protagonisti il Pd, il Movimento Cinque Stelle, e un Centro-destra più o meno unito (e più o meno salvinizzato).

Sarebbe un problema?

Con l’attuale legge elettorale, ovvero con l’Italicum, lo sarebbe. È paradossale, ma l’Italicum, nato per risolvere i problemi dell’Italia, appare tanto adatto alla Spagna quanto inadatto all’Italia.
Un sistema che manda al ballottaggio i due principali partiti e conferisce al vincitore del ballottaggio la maggioranza dei seggi parlamentari è perfetto dal punto di vista della governabilità, ma lo è per definizione, come qualsiasi altro meccanismo (compreso il sorteggio), che generi un vincitore e gli dia automaticamente più della metà dei seggi. La prova del nove dei sistemi elettorali “automatici” non è ovviamente la governabilità (che è tautologicamente soddisfatta), ma la capacità di non rendere troppo casuale e arbitraria la scelta del vincitore.
E questa, sfortunatamente, non è una proprietà intrinseca dei sistemi elettorali, come non è una proprietà intrinseca di un abito quella di vestire bene una persona. Non vedrei mai bene una giacca di Fassino addosso a Brunetta, ma non mi permetterei mai di dire che è una cattiva giacca.

Così è per l’Italicum. Può essere un ottimo sistema in Spagna, forse anche altrove, ma in Italia?

In Italia le preferenze elettorali, piaccia o non piaccia, si strutturano intorno a tre poli. Il guaio dei sistemi tripolari è che è maledettamente difficile escogitare un meccanismo che, fra i tre ballottaggi possibili (A contro B; A contro C; B contro C) faccia emergere quello davvero più importante, dove per importante intendo capace di mantenere alta la partecipazione, e farlo intorno a due veri progetti di governo. Non solo, ma è perfettamente possibile che il destino di un governo uscente sia deciso da qualcosa di alquanto accidentale, come può essere l’ordine di arrivo dei partiti al primo turno.

Esemplifico con il caos italiano. Tutti i sondaggi danno per scontato il fatto che il partito al governo (il Pd), che è anche il maggiore partito italiano, risulti il partito più votato al primo turno, e vada quindi al ballottaggio. Supponiamo che questa previsione assai ragionevole si avveri, e che il Pd conquisti il solito 30-35% dei voti (quota Veltroni-Berlinguer). Ma chi sfiderà il Pd al ballottaggio? Questo non solo è imprevedibile, ma è fortemente dipendente da circostanze decisamente contingenti, che ben poco hanno a che fare con le reali preferenze dell’elettorato. Il Centro-destra, ad esempio, potrebbe andare al voto con una coalizione più o meno ampia, e l’estrema sinistra potrebbe fare o non fare un’alleanza elettorale con il Pd. Tutte faccende che riguardano i movimenti dell’offerta politica, non certo gli orientamenti politici dei cittadini.

Ma i medesimi sondaggi che rivelano che il Pd è il probabile vincitore del primo turno, mettono in evidenza che, nel secondo turno, il destino del Pd (e quindi del governo Renzi) dipende in modo cruciale da chi lo sfiderà, ossia da chi sarà arrivato secondo nel primo turno: se il secondo arrivato (dietro il Pd) è il Centro-destra, il Pd vince il ballottaggio e Renzi resta in sella; se il secondo arrivato è il Movimento Cinque Stelle, il Pd perde il ballottaggio e Renzi deve tornare a casa.
È ragionevole un meccanismo del genere?
Se i poli sono due, come in Spagna e in altri paesi europei, sì. Se i poli sono tre, e inoltre attirano più o meno i medesimi consensi, direi proprio di no. In Italia Movimento Cinque stelle e Centro-destra, i due sfidanti del partito al governo, sono entrambi prossimi al 30% dei voti. È perfettamente possibile che al primo turno ottengano percentuali simili. Al limite, se Grillo prende 1 voto in meno del Centro-destra il Pd resta al governo, se Grillo prende 1 voto di più del Centro-destra il Pd va all’opposizione. La sfida principale, tenerci il governo uscente o cambiarlo, viene decisa dalla sfida secondaria fra gli oppositori del governo.

Forse, prima di entusiasmarci delle virtù dell’Italicum, dovremmo riflettere ancora un po’ sui suoi difetti.

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