Ogni tanto leggiamo che la disoccupazione non flette, altre volte il contrario, e naturalmente le parti politiche cavalcano l'una o l'altra tesi a seconda della convenienza.
A mio avviso, gli interventi di Luca Ricolfi danno un buon contributo alla verità, ancorché la stessa non sia proprio il massimo.
Buona Lettura
Il mercato del lavoro e l’enigma che non c’è
di
Luca Ricolfi
Il 2015 è passato, la decontribuzione completa non c’è più,
forse è tempo di tentare un bilancio. Sono servite le misure di Renzi per
rianimare il mercato del lavoro?
Apparentemente, la risposta dipende dalla fonte. Se
guardiamo ai dati Inps parrebbe di sì: da circa un anno la quota di assunzioni
con contratti più o meno precari è in costante diminuzione. Se invece guardiamo
ai dati Istat parrebbe di no: il peso dell’occupazione precaria è in costante
aumento, e nell'ultima indagine trimestrale ha toccato il massimo storico.
Chi ha ragione? Re Salomone avrebbe risolto l’enigma
dicendo: hanno ragione tutti e due, dopotutto i dati delle due fonti non sono
comparabili, visto che l’Inps si occupa di flussi (assunzioni e cessazioni), o
più precisamente di variazioni del numero e del tipo di contratti, mentre
l’Istat si occupa di stock, ossia dell’andamento dei livelli di occupazione.
Questa visione scettica del problema del conflitto fra dati
Inps e dati Istat è anche spesso approdata sui giornali, dando luogo alla tesi
secondo cui Inps e Istat dovrebbero parlarsi di più, se non altro per evitare
le continue strumentalizzazioni politiche dei dati sul mercato del lavoro.
La realtà, tuttavia, è meno ambigua di quel che sembra.
Anche se i dati Inps e Istat non sono direttamente confrontabili (l’Inps
trascura alcuni settori, e ignora quasi completamente il lavoro autonomo), il
quadro che da essi si può ricavare è relativamente coerente, purché si tengano
sempre presenti le differenze fra le due fonti.
Se la domanda è: il peso dell'occupazione precaria sta
diminuendo? La risposta è un no reciso non solo sulla base dei dati Istat, ma
anche su quella dei dati Inps.
Quando si osserva che la percentuale di nuovi
contratti stipulati a tempo indeterminato aumenta, si dimentica infatti un dato
fondamentale: quello delle cessazioni, ossia dei rapporti di lavoro che muoiono
o per licenziamento o per altri motivi. Ebbene anche nell’anno di grazia 2015,
baciato dalla decontribuzione e dal Jobs Act, il numero di rapporti di lavoro a
tempo indeterminato cessati ha ampiamente superato il numero di rapporti di
lavoro attivati, mentre il contrario è accaduto per i rapporti di lavoro
temporanei, che hanno visto le attivazioni superare le cessazioni. Ecco perché
il peso dell’occupazione precaria, puntualmente registrato dall’Istat, è
aumentato anche nell’anno del Jobs Act.
Se lo scopo del Jobs Act era abbattere
il tasso di occupazione precaria, il bilancio non può che essere negativo: il
Jobs Act ha mancato l’obiettivo.
E tuttavia questa conclusione sarebbe non solo affrettata,
ma alquanto semplicistica e riduttiva, e questo per due distinte ragioni. La
prima è che le misure che possono aver prodotto effetti rilevanti sul mercato
del lavoro sono almeno tre: decreto Poletti (marzo 2014), decontribuzione
(gennaio 2015), Jobs Act (marzo 2015). La seconda ragione è che fra tali
effetti bisogna anche considerare la spinta occupazionale, ovvero la capacità
di creare posti di lavoro. Ebbene, su questo occorrerà attendere i dati
definitivi dell’Inps e dell’Istat relativi all’ultimo trimestre del 2015, ma
intanto si può notare che il bilancio non è del tutto negativo. A fronte di un
assai preoccupante calo del lavoro autonomo (circa 100 mila occupati in meno),
il 2015 fa registrare una lenta ripresa dell'occupazione dipendente, che
tuttavia era già visibile prima del Jobs Act, prima della decontribuzione, e in
qualche misura prima del decreto Poletti (l'inversione di tendenza sul mercato
del lavoro risale all’ultimo trimestre del 2013, ancora regnate Enrico Letta).
Il problema è che l’intensità di tale ripresa è piuttosto modesta nonostante
tutti gli stimoli, interni e internazionali, che l’economia sta ricevendo da
più di un anno a questa parte. Nel 2014, ossia prima del Jobs Act ma vigente il
decreto Poletti, la spinta occupazionale era valutabile in 150 mila posti di
lavoro dipendente all’anno, nel 2015 tale spinta è salita a circa 230 mila
posti di lavoro l’anno, 80 mila in più. Un po' pochini, tenuto contro che sono
costati 12 miliardi alle casse pubbliche (circa 150 mila euro per lavoratore).
Se si pensa che l’elemento chiave di questa accelerazione è stata la
decontribuzione totale, e che tale misura è già caduta a partire dal 1° gennaio
di quest'anno, non c’è da essere particolarmente ottimisti sul futuro.
La realtà, temo, è che la “portante” dell’economia italiana,
indipendentemente da chi ha la ventura di governarla, è da diversi anni la
riduzione progressiva della base produttiva. E l’indicatore più diretto, più
drammatico, di tale riduzione lo forniscono proprio i dati Inps, che da quando
vengono pubblicati regolarmente (dal 2009) invariabilmente segnalano una
distruzione pressappoco costante di posti di lavoro a tempo indeterminato. Ora
quella distruzione continua, ma a un ritmo molto più lento che un anno fa.
Difficile pensare che le misure di sostegno dell'occupazione varate dal governo
non abbiano avuto alcun ruolo in tale rallentamento. Ma ancor più difficile è
credere che, con l’incertezza che domina i mercati e il venir meno della
decontribuzione totale, si possano raggiungere i due obiettivi fondamentali che
la riforma del mercato del lavoro si era data: creare tanti posti di lavoro,
ridurre il peso del lavoro precario.
Buongiorno Sig.ra/sig.
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